Space rock, talento e paraculaggine

THE LAZY EYES – Songbook (Autoproduzione)

Estetica giocosa, palloncini colorati, sorrisi impiantati su quattro belle facce pulite. I figliocci dichiarati di Tame Impala e King Gizzard & the Lizard Wizard ammollano lo space rock dentro ettolitri di limonata. Non possono che evaporare, letteralmente evaporare, melodie avvolgenti spesso sostenute da riff ipnotici che mantengono una commestibilità per qualsiasi palato.

Quando si maneggiano ingredienti del genere le bucce di banana sono dietro l’angolo… e, insomma, è un attimo scivolare o far cazzate. Qui tutto è al posto giusto, ben bilanciato, armonico. Dalla sabbia a granelli fini fini di Tangerine, al groove duro ma mai ostico di Fuzz Jam addolcito letalmente per i diabetici da una voce che più carezzevole non si può.

Nei Lazy Eyes talento e paraculaggine vanno a braccetto dal primo all’ultimo pezzo. Lo si percepisce soprattutto quando i ragazzi di Sydney cavalcano le nuvole in modalità ultra pop con leggere armonizzazioni che fanno tanto Beatles per millennials e centennials: penso a Starting Over, Nobody Taught Me e Imaginary Girl.

Al netto di quanto appena sostenuto va detto – e sottolineato con forza – che la psichedelia amica non fa mai male. Inoltre è quantomeno apprezzabile che tutto questo sia autoprodotto su vinile, cd e persino cassetta.

Riciclare telescopi guardandosi le scarpe

AVERE TRENT’ANNI (DI SHOEGAZE)

Un paio di sere fa sono stato a vedere i Telescopes di Stephen Lawrie, dominus assoluto e penso unico superstite della formazione originale. Per originale intendo quella dello strepitoso debutto Taste: album, pensato e scritto da Stephen sotto Triptizol, che presi quando uscì nel 1989 (l’album non l’antidepressivo!). Io avevo 17 anni, Stephen ne aveva 20. Eravamo praticamente coetanei. Trent’anni dopo ci ri-incontriamo. Ed è ancora lui che viene a trovarmi, da galantuomo qual è. Nel 1989 entrava sotto forma di vinile nella mia cameretta di Via Savini, a Teramo. Nel 2019 arriva in carne e ossa e spirito al Sound di Via Fedele De Paulis, sempre a Teramo. Ora come allora una bella esperienza, breve, intensa, cosmica, acida al punto giusto. Per gran parte del tempo il cinquantenne Stephen se n’è stato ripiegato sul microfono o inginocchiato, con la testa bassa. Più shoegaze di così non ce n’è, insomma.

A proposito del guardarsi le scarpe, interrogandosi sulla scoloritura delle proprie Dr. Martens, mi è venuto da pensare a come lo shoegaze si è evoluto, i sentieri che ha preso e che sta prendendo. Così mi è tornato in mente Pink Cloud, l’EP d’esordio del progetto chiamato Launder, pubblicato un anno fa da Day Wave, l’etichetta personale di Jackson Phillips/Day Wave. Un bell’EP che, rispetto alla scura claustrofobia circolare dei Telescopes, rappresenta la faccia abbronzata e multicolor dello shoegaze. Post punk smorzato da un caldo e avvolgente vento dream pop, maturato all’ombra delle palme di Los Angeles via Dana Point: la città di origine di John Cudlip, in arte Launder. A far sentire meno solo il nostro, ci ha pensato la cantante e attrice francese SoKo che doppia la voce e si prende tutta la scena in Keep You Close piena com’è di delicata malinconia 4ADiana. Nient’affatto secondario l’apporto di una altro sognatore dei giorni nostri: Zachary Cole Smith di Beach Fossils e DIIV, che presta la sua nebulosa chitarra shoegaze (e ci risiamo!), facendo più che degnamente il suo senza mai strafare.

PS: da un paio di mesi è uscito Powder, il nuovo 7” di Launder, su House Arrest Distribution.