Se avete letto le puntate precedenti sapete che sto in fissa per i juke-box. Quando ne vedo uno mi si rizzano i peli delle braccia. Nei nostri luoghi, nei nostri laghi mi è successo nel vecchio negozio di dischi Rockin’ Bones di Parma, al Garage di Avellino e di recente al gagliardo Tamla di Cesena dove fa bella mostra un Wurlitzer 3500 Zodiac del 1971 pieno di dischetti niente male. A vedere (e ascoltare) la musica dentro i juke-box ci siamo abituati, a guardare il juke-box come elemento dotato di contenuti propri un po’ meno. Eppure, per la sua forte valenza iconica, da oggetto è diventato presto soggetto, simbolo, valore. Nessun’altra macchina di riproduzione musicale ha avuto un impatto così forte sull’immaginario collettivo, finendo letteralmente dentro i supporti fonografici.
Negli anni ’50 e ’60 non si contano le copertine di dischi che lo raffigurano. Dalla compilation Tops In Pops dove una ragazzo e una ragazza cingono un AMI F120 del 1954, all’album Teenage Hop di Warren Covington and The Commanders che lascia intravedere un Seeburg HF100R sempre del 1954. Un altro gran bel Seeburg, il 222 Channel del 1959, è piazzato sulla cover di We Are The Chantels della suddetta girl band mentre in New Juke Box Hits del 1961 un compunto Chuck Berry squadra il contenuto di un Rock-Ola 1455S del 1956. Nell’edizione tedesca del singolo Pretty Woman di Roy Orbison ci sono due belle donzelle e un tipo poggiati su un Seeburg AY160 del 1961. Addirittura sulla copertina dell’album per bambini Tammy’s Sing-A-Long Party, pubblicato negli USA nel 1965, è raffigurata una bambolina tipo Barbie intenta ad inserire un disco su un piccolo juke-box giocattolo. Nel decennio successivo mi vengono in mente le edizioni francese e tedesca del 7” Jump In My Car del sottovalutato Chris Spedding a cui fa da sfondo un cangiante Wurlitzer 2300 del 1959.
Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 il juke-box ha imboccato a tutta velocità la china discendente. In preda alla disperazione l’industria ha tentato senza successo una riconversione producendo quegli orribili affari che sono i juke-box a cd. A mia memoria sono poche le copertine dei dischi che raffigurano juke-box nel decennio dell’edonismo e delle pere. Ma una chicca c’è: il bootleg in picture disc del 1987, Marc Bolan in America 1972, sul cui vinile 10” è serigrafata una foto del nostro eroe glam spaparanzato su una sedia a dondolo, alle sue spalle un Rock-Ola 1478 Tempo 2 del 1960 da sturbo fulminante.
Facendo una bella capriola temporale arriviamo al r’n’r fradicio che piace a voi lettori di Sottoterra. Nel 1999 la nostra gloriosa Goodbye Boozy inizia a correre nella campestre industria musicale DIY con il 7” I’m Young, Dumb & Full of Cum di quella macchina da guerra che sono stati gli americani The Whittingtons di Ryan Romano, l’uomo dietro la Sack O’ Shit Records . Sulla copertina in b/n d’ordinanza un fantastico Wurlitzer 2204 Console del 1958, nel retrocopertina il suo amplificatore valvolare. Per la cronaca il 45 giri fu eletto singolo del mese del n. 12 di Bassa Fedeltà, il padre putativo della rivista che state leggendo. Nel 2012 Matthew M. Melton chiude sbrigativamente l’avventura Bare Wires ma continua a scoccare frecce dolciastre di garage pop bizzarro e glammoso alla testa del suo nuovo gruppo Warm Soda. L’esordio è il 7” Reaction su Southpaw. In copertina una ragazzotta giunonica tipicamente Seventies ciuccia una Coca Cola poggiata in modo lascivo su un Seeburg Carnival del 1973.
Rimanendo nell’alveo del pop sbarchiamo in terra d’Albione. Nonostante i Bluetones non siano la mia tazza di thè, va detto che non erano poi così male. A fine settembre 2015, in occasione del tour di reunion per il ventesimo anniversario della band, i londinesi hanno distribuito via Acid Jazz un 7” in edizione limitata con le versioni demo del loro maggiore successo Slight Return, che nel ’96 arrivò al secondo posto nella chart inglese, e del primissimo singolo No. 11 (Bluetonic). La cover art ritrae un maestoso Seeburg KD Select-O-Matic da 200 selezioni del 1957 con la spettacolare griglia frontale che richiama i fanali posteriori delle Cadillac.
La parola magica juke-box è presente in una montagna di titoli di canzoni. Di seguito la mia personale selezione in ordine cronologico. Let The Juke Box Keep On Playing di Carl Perkins del 1955; Juke Box Baby di Perry Como e la meno edulcorata Juke Box, Help Me Find My Baby dei Rhythm Rockers di Hardrock Gunter del 1956; Rollin’ To The Jukebox Rock di Benny Joy del 1957; Radio Jukebox and TV del 1958 cantata dall’inquieto Jimmy Donley che si suicidò poco più che trentenne. L’ottima Little Jukebox di Wayne Newton del 1961; Juke-Box (If I Didn’t Have A Dime To Play The Juke-Box) degli olandesi The Cats datata 1965; Hello Jukebox dell’oscuro cantante country Russ Mann del 1968. Jukeboox Jive dei Rubettes e Jukeboox Queen della Glitter Band entrambe del 1974; Put A Bullet Thru The Jukebox della punk-psych-garage band di Washington DC The Slickee Boys e Johnny Jukebox del sottovalutato gruppo power pop irlandese Radiators (from Space) del 1978; la celeberrimaRebellious Jukeboxdei Fall e la misconosciuta Bomb In The Jukebox degli olandesi Speedtwins del 1979. Wurlitzer Jukebox! degli Young Marble Giants e Juke Box dei canadesi Payola$ del 1980; il leggero rockabilly Jumpin’ Jukebox dei Bird Dogs del 1984; la disturbante Human Jukebox dall’omonimo album degli Scientists e la soave Southern Jukebox Music della Penguin Cafe Orchestra del 1987; Jukebox Lullabye dal primo album dell’89 di Chris Cacavas & Junkyard Love.
L’esilarante tarda hit del 1990, Jukebox in Siberia, degli australiani Skyhooks; la lo-fissima Jukebox in Brasil dei Royal Trux uscita sul 7” Pell Session 11.93; I Saw Her Standing By The Jukebox degli americani The Rehabs, Hadda Be Playing On The Jukebox dei Rage Against The Machine e la micidiale Jukebox Lean dei grandi New Bomb Turks targate 1996; addirittura il 7” del 1999 della ‘falsa’ Mexican rockabilly band chiamataCarlos & The Bandidos con Jukebox Rock sul lato A e Jukebox Jezebel sul lato B. Jukebox Padlock degli Hard Feelings del 2000; Jukebox Killers della fast hc band giapponese The Sprouts del 2003; Jukebox Maniac dei Wooden Tit di Don Howland pubblicata nel 2006 dalla beneamata Hate Records e Jukebox (Shake) degli svizzeri Giant Robots su Voodoo Rhythm sempre del 2006; Jukebox Generation degli street punkers mancuniani Goldblade e Suffering Jukebox dei Silver Jews del 2008; Jukeboox Sunshine della indie pop band inglese The Holloways del 2009; Jukebox Jesus dei francesi Dum Dum Boys del 2011; fino a The Jukebox Will Cure My Ills del folle electro trash rocker viennese Al Bird Dirt, contenuta nella cassetta Lost Home Recordings (1999–2009) pubblicata pochi mesi fa dalla Cut Surface.
Il Belpaese non è rimasto con le mani in mano. Nel 1980 Edoardo Bennato ha pubblicato due album di gran successo, Sono solo canzonette e Uffà! Uffà!. Da quest’ultimo è stato estratto il singolo, invero abbastanza insignificante, Sei come un juke-box. In copertina il nostro, sornione, con le mani in tasca e le gambe incrociate, dà le spalle a un favoloso AMI JDI-200 del 1958.
Il 1980 è anche l’anno dell’esordio solista di Alan Vega. Il singolo, che darà all’allora quarantaduenne Boruch Alan Bermowitz un’inaspettata attenzione mainstream, s’intitolaJuke Box Babe. In realtà il pezzo è tutt’altro che commerciale. Ha una struttura lineare e balbettante con una mefitica progressione weird rockabilly. Alan Vega adorabilmente sfiatato e con quella vocetta nasale da Paperino eroinomane fa pace con le sue radici, ovvero il rock and roll degli anni ’50. Visto che parliamo di giganti è d’obbligo menzionare anche Link Wray che nel 1971 pubblica il terzo, omonimo album. Uno dei più rilassati della sua discografia, non per niente sancisce l’ingresso nella scuderia Polydor. Un disco cantato (bene, peraltro), molto country e gospel-blues, per lo più fatto di sonorità acustiche. Per dire, spesso e volentieri Link imbraccia il dobro e nella toccante Black River Swamp a farla da padrone è il mandolino. Il terzo pezzo, ovviamente il mio preferito, s’intitola Juke Box Mama: una sorta di r&b funkettoso e indolente che fa pensare a James Brown ubriaco dopo una cena a casa di Van Morrison.
Avendo tirato fuori Mr Rumble mi piace chiudere la terza puntata delle Cronache del Juke-Box ricordando Billy Miller che ci ha lasciati da poco. Tra i tanti meriti della sua Norton Records c’è quello di aver dato alle stampe dieci 7” nella Jukebox Series dedicata a Link Wray & The Raymen inaugurando la Norton Eight Hundreds, così chiamata poiché le serie JB sono identificate con il prefisso 800. Sul sito dell’etichetta c’è questa frase che sottoscrivo col sangue: “Qui al quartier generale della Norton ci godiamo la compagnia di un Wurlitzer e di tre Seeburg. A voi sprovvisti di juke-box consigliamo vivamente di evitare di gettare il vostro denaro su moderni congegni multimediali, di salvare le monetine per un juke-box e non vi guarderete mai più indietro”.
La terza e ultima parte delle Cronache del (mio) juke-box è stata pubblicata sul n. 8 della Rock Zine SOTTO TERRA di maggio 2017.
Devo averlo già scritto da qualche parte che al punk ci sono arrivato dalla new wave. E l’imprinting m’è rimasto. Poi ho preso al volo la complanare del post-punk ché quando la storia ha iniziato a prendere una piega troppo gaia e tastierosa ho preferito rifugiarmi tra le chitarre grattugiate evitando come la peste qualsiasi afflato new romantic. Il mio spartiacque sono stati i Fall, per la precisione Grotesque (After The Gramme) doppiatomi su cassetta e poco dopo comprato per posta a due lire su Top Ten o Sweet Music, non ricordo bene. Ricordo bene, però, che era estate e che avevo 16 anni e tre-passioni-tre: il r’n’r, la pallavolo e la fica, non esattamente in questo ordine. La terza la vedevo col cannocchiale (invero era piuttosto un’aspirazione), nel volley ero un giocatorino dotato di buoni fondamentali e il r’n’r iniziavo a frequentarlo assiduamente. Una bella spinta per approfondire la frequentazione me l’ha data proprio la band di Mark E. Smith. Oltre alla musica mi affascinava il concetto di “caduta” (The Fall, appunto) che per me non significava un rialzarsi ma proprio un alzarsi, per la prima volta. Mettere la testa fuori, respirare a pieni polmoni, simile tra i diversi.
Questa cosa della caduta è tornata, vent’anni dopo, nel pieno delle trattative per portarmi a casa il tanto desiderato juke-box. Magari non sarà sfuggito quanto scritto nella puntata precedente: “Nel momento dell’acquisto è pure accaduta una vicenda comica che stava per sfociare in tragedia…”.
Insomma, ci sono cadute e cadute. Metaforiche, concettuali e reali. Quella che sto per raccontarvi è stata così reale da apparire irreale. La storia è questa: tramite una mia zia che ha gestito a lungo un bar ero riuscito a entrare in contatto con il signor Franco, un vecchio noleggiatore di flipper e juke-box convertitosi, come tutti, a quelle infernali macchinette chiamate videopoker. Stavo dietro da un po’ a ‘sto signor Franco, per telefono mi aveva già parlato di cifre ed eravamo d’accordo pure sul prezzo di massima ma, botta a botta, rimandava l’incontro. Finalmente arrivò il fatidico giorno e decisi di portarmi dietro mio padre che era incuriosito dalla faccenda. L’azienda del signor Franco, a parte l’ufficio e un altro paio di stanze, sembrava ancora in costruzione ma, ahimè, ci feci caso solo dopo. Era inverno, pioveva a dirotto e faceva buio presto. Mio padre indossava un cappotto in Loden nuovo di pacca e teneva l’ombrello a mo’ di bastone. Il signor Franco ci disse di scendere al piano di sotto indicandoci le scale col braccio a mo’ di vigile urbano.
All’improvviso il patatrac. Non c’erano più né il Loden, né l’ombrello, né mio padre. Sentii un tonfo lontano, preceduto da urla agghiaccianti che mi parvero lunghissime. Per non fare la stessa fine, scesi le scale buie con preoccupata circospezione e trovai mio padre steso a terra un paio di metri sotto. Era immobile, supino, leggermente spostato su un fianco. Praticamente morto.
Rimase steso con gli occhi spiritati, non parlava e non si mosse per secondi che a me parvero ore. In realtà il caro genitore era solo sotto shock. Aveva fatto una scrippella epocale di quelle che non ti dimentichi facilmente, ma era caduto bene. Nel pieno del volo, mi disse dopo, aveva avuto la prontezza di fare una torsione in modo da non andarci di muso e atterrare su un fianco. Per fortuna la sua corporatura tendente più a Bud Spencer che a Piero Fassino aveva attutito l’impatto. Quando finalmentesi rialzò, aveva i pantaloni e il Loden sgarrati in più punti e impolverati tipo muratore bergamasco. Uscimmo da lì all’istante, dimenticandoci ciò che eravamo andati a fare, con il signor Franco incapace di parlare e suppongo terrorizzato da possibili conseguenze legali. La settimana dopo provai a richiamarlo ma niente da fare, probabilmente era rimasto muto dall’accaduto. Iniziai a spazientirmi dopo il terzo o quarto tentativo andato a vuoto e ancor di più quando si degnò a rispondere dicendomi che non se ne sarebbe fatto più nulla. Accampò scuse talmente patetiche che dovetti inspirare ed espirare per non mandarlo a cacare.
Ma, come si dice quaggiù, “a forza di daje e daje pure la cipoll divend aje” (trad. “Chi la dura la vince”) e dopo un semestre di fine stillicidio sono riuscito a tornare dal signor Franco, questa volta in perfetta solitudine. Quando scendemmo al piano di sotto notai che rispetto alla volta precedente sembrava esser passato di lì Renzo Piano. Era tutto in perfetto ordine, pulito, illuminato, sicuro. Ma non vedevo alcun cazzo di juke-box. Finché in un angolo ne scorsi una decina, accatastati uno sull’altro, pieni di polvere e ragnatele. Il signor Franco, quasi sprezzante e come se non gli interessasse nulla, mi disse una cosa tipo: «Vedi un po’ che trovi lì in mezzo». Ricordo come fosse ora che raggiunsi il tesoro a passo lesto e puntai subito un bel Rock-Ola Coronado del 1966, all’apparenza neanche così malmesso. Ma mi accorsi subito che ‘sto Franco era un figlio di ‘ndrocchia e la sapeva lunga. Mi gelò dicendo che quello lì era rotto, senza parti all’interno e spinse per rifilarmi a tutti i costi un Cadette della Rowe AMI: uno dei pochi juke-box che non sopporto. Anche perché, nel caso specifico, non si trattava dell’edizione deluxe del 1968 con un design optical-psichedelico ma del Cadette “Violetta” del ’71 con l’orrida grata frontale in legno simil massello, tipo baita di montagna, peraltro mezza sfondata. Alla fine, un po’ per esclusione, trovammo un punto d’incontro sul Rock-Ola 463 del 1976 di cui vi ho già parlato. Gli allungai il cash nel suo ufficio, avendo la conferma che ‘sto Franco era davvero un bel figlio di ‘ndrocchia. Sulla parete lunga faceva bella mostra un fantastico Rowe AMI JCL-200, il cosiddetto “Stellone”, prodotto su licenza dalla Microtecnica di Torino nei primi anni ‘60, perfettamente restaurato e con le cromature così lucide che ti ci potevi specchiare.
IL 7” DA JUKE-BOX
Avendo suonicchiato la batteria in gioventù i miei amici dell’Università per la laurea mi regalarono uno spettacolare rullante Tama in bronzo e cerchi bruniti, il PB 355H. E siccome avanzarono loro dei soldi questi straordinari compagni di bagordi, per lo più gente del profondo sud con mani callose e cuori grossi come cocomeri, pensarono bene di aggiungerci uno scatolone di 45 giri comprato a peso. Non era gente appassionata di musica, tutt’altro: uno di loro, mio coinquilino per un periodo, lo chiamavamo Palobo ché ci aveva delle orecchie spropositate e stava in fissa per Mover el Tiempo, l’insulso album di romantic rock del divo messicano delle telenovelas Eduardo Palomo.
Questo per dire che dentro ‘sto scatolone ci trovai di tutto e di più, qualche discreto 45 giri beat ma per il resto robaccia. Però c’erano diversi 7” da juke-box che, a dispetto di quanto si possa pensare, non sono un’invenzione americana ma italiana. Alle spalle c’è una storia curiosa e se vogliamo emblematica del genio tricolore. Il disco per juke-box fu ideato nei primi anni ’60 da due commilitoni che videro nell’elevato costo dei dischi “normali” un ostacolo alla diffusione di queste nuove macchine provenienti dagli USA. La vicenda è spiegata per bene da Claudio Tosato – riparatore, collezionista, nonché uno dei massimi esperti di juke-box al mondo – nell’ebook Jukebox – Una storia fatta di musica a cura di Armando Cardazzo e Désirée Gottardi: “Uno era di Torino e lavorava in un negozio di elettrodomestici nel reparto dischi, mentre l’altro, di Roma era il figlio di un manager della RCA. Era il periodo in cui i noleggiatori di dischi, muovevano i primi passi e cominciavano a guadagnare qualcosa mettendo in funzione nei bar i primi juke-box che arrivavano in Italia usati e quasi sempre con i cargo per le basi Nato […] Al termine del servizio di leva, il torinese fu chiamato a Roma dal padre dell’amico che aveva riconosciuto nell’idea dei due ragazzi un ottimo veicolo promozionale per i dischi in uscita”.
E fu proprio la RCA italiana a distribuire nel Belpaese i primi dischi in edizione per juke-box che all’inizio erano dischi identici alla versione commerciale con tanto di copertina, a parte un timbro sulla label con la dicitura “Disco Edizione Juke Box – Non vendibile al dettaglio”. Anche la curiosa storia della RCA italiana vale la pena di essere brevemente raccontata. Nel secondo dopoguerra la Radio Corporation of America (RCA) decise di impiantare una filiale in Italia, e non perché credesse di trovare da noi un mercato chissà quanto soddisfacente. Lo fece su pressione di Papa Pio XII che, memore dei bombardamenti americani del 19 luglio 1943 sul quartiere romano di San Lorenzo, chiese all’allora vice presidente della RCA Victor, Frank M. Folsom, di installare una fabbrica proprio in quel quartiere in modo da “risarcire” i romani creando nuovi posti di lavoro. E così, nel 1951, nacque ufficialmente la RCA Italiana, una società per azioni controllata per il 90% dalla casa madre statunitense e per il 10% dal Vaticano tramite lo IOR: l’avreste mai detto?
Ma torniamo sul pezzo. Nei primi anni i 7” da juke-box furono stampati tal quali a quelli ufficiali. Solo in un secondo momento, per abbattere i costi, vennero distribuiti dentro cover forate generiche con il marchio RCA. La parola ancora a Tosato: “Seppur privo di copertina, il disco per juke-box incoraggiava comunque operazioni illecite. Infatti, venditori disonesti, dopo aver eliminato con della trielina il timbro che identificava il disco per juke-box, lo rendevano a tutti gli effetti ufficiale e poteva essere venduto al normale prezzo con un incremento del 100% sul guadagno. La RCA scoperto l’inghippo, pensò allora di utilizzare per questo tipo di emissioni, una label specifica diversa da quella normale, in modo da non poter più essere contraffatta e facilmente identificabile dall’acquirente. […] Anche le buste forate con il logo RCA (se ne contano circa cinque tipi) sparirono presto e i dischi per juke-box venivano confezionati usando, dapprima i surplus delle copertine di dischi invenduti che venivano opportunamente forate al centro per mostrare l’etichetta, poi vennero usate buste bianche vergini, fino agli ultimi anni quando venne utilizzata la carta riciclata. […] visto che la cosa funzionava, anche le altre case discografiche italiane aderirono alla famosa ‘edizione per juke-box‘. Nei primi anni quasi tutte le produzioni rispecchiavano il lato A e il lato B dell’edizione normale poi, per dimezzare il costo SIAE, si è pensato di mettere nel lato B un artista (meno famoso o emergente) della stessa casa discografica o di un’etichetta affiliata in distribuzione. A volte capitava che ne uscisse il “disco bomba” con entrambi i lati super gettonati. Capitava anche che un brano venisse prodotto soltanto nell’edizione juke-box, tale disco è diventato negli anni un pezzo molto ricercato dai collezionisti. All’inizio le versioni commerciali dei dischi erano dotate (sul retro copertina) del famoso cartellino o title-strip colorato, che doveva essere ritagliato e inserito nel juke-box“.
Negli anni ne ho visti, comprati e venduti diversi di 7” per juke-box. Alcune accoppiate di artisti sono improbabili e oserei dire bellissime. Andando in ordine cronologico penso al dischetto del 1967 griffato Polydor con Io, tu e le rose di Orietta Berti su un lato e Happy Jack dei The Who sull’altro. L’Oriettona nazionale la ritroviamo nello spettacolare 7” del 1972 con il medley Come porti i capelli bella bionda/La Marianna a guerreggiare contro Tomorrow’s Dream dei Black Sabbath. Un trittico di dischetti “bomba” dei Seventies è composto da Metal Guru dei T-Rex con Day After Day dei Badfinger (1972), On A Night Like This di Bob Dylan contrapposta a On The Line di Graham Nash (1974), Hurricane (Part I) sempre di Dylan e Born To Run di Bruce Springsteen (1976), quest’ultimo anche dal discreto valore collezionistico. Della fine degli anni ’70 menzionerei anche il 7” che contiene The Robots dei Kraftwerk e Una lacrima sul viso di Bobby Solo.
Il decennio dell’edonismo reaganiano e dell’eroina dilagante inizia con tre dischetti da sturbo. Sono del 1980 i 7” split per juke-box che accoppiano Baby I Love You dei Ramones e Contessadei Decibel, Start dei Jam e Cathode Mamma dei Krisma, Private Idaho dei B-52’s e la hit nazionalpopolare sanremese Ancora di Eduardo De Crescenzo. Dell’81 invece è lo spettacolare 45 giri che abbina This Is Radio Clash dei Clash e Il dritto di Chicago di Beppe Starnazza e I Vortici, ovvero il nostro amato Freak Antoni nei panni di un Fred Buscaglione sballato che si presentava come il figlio del cantante umoristico degli anni ‘40 Pippo Starnazza. A chiudere il decennio, nel 1989, viene pubblicato su piccolo vinile per juke-box uno dei più bei pezzi dei Cure, Picture of You, in tandem con From Out of Nowhere dei Faith No More. Nel corso degli anni ’90, nonostante gli apparecchi di riproduzione musicale automatica siano oramai fuori moda, pressoché scomparsi dai bar, i dischetti per juke-box continuano ad essere prodotti. Del 1994 e il 7” split con quella immonda tamarrata di I Need Your Love dei Boston e la fantastica Loser di Beck. Il clou, tuttavia, lo si raggiunge con un altro dischetto datato sempre ’94 che vede abbinate, del tutto a cazzo, Basket Case dei Green Day con Dammi di più di tale Tony Blescia.
CASSETTE E CASSONETTI DELLA SPAZZATURA
Ci sono nato con le cassette ma ai tempi non le amavo molto. Erano scomode da ascoltare e le associavo alla mancanza di soldi. Nel senso che non potendomi permettere i dischi in vinile che avrei voluto, come molti di voi che state leggendo, mi facevo fare le cassettine. Per lo più delle economiche TDK D da 90 minuti per registrarci su due album, uno per lato. L’ho fatto regolarmente fino alla seconda metà degli anni ’90. Nel periodo universitario bolognese andavo in quel meraviglioso posto che era Sesto Senso, mi affittavo a due soldi dei CD di cui avevo letto le recensioni su “Rockerilla” o “Rumore” e poi li riversavo su cassetta. Negli ultimi anni ho ripreso confidenza con le cassette perché diverse belle etichette di musica sfagiolata hanno ri-iniziato a produrle, immagino spinte soprattutto dalla volontà (e direi dalla necessità) di tenere bassi i costi di produzione e quindi di vendita: la nota Burger e la sua sussidiaria Wiener o, per rimanere in Italia, My Own Private e No=Fi, e ancora Bubca e Welcome In The Shit che da queste parti dovreste conoscere. Nonostante ancora oggi non impazzisca per il supporto, il nastro magnetico è comunque un cazzo di supporto, non merdosi mp3 o impalpabile streaming. Aggiungo che lo scorso anno, con alcuni balordi della mia città, abbiamo anche organizzato il Cassette Store Day qui a Teramo, quindi direi che ci ho definitivamente fatto pace.
Il breve panegirico di cui sopra per dirvi che esiste anche il juke-box a cassette. So che si stenta a credere ma tant’è. Tra la fine del 1971 e gli inizi del 1972 la divisione tedesca della Wurlitzer ha tirato fuori il C-110. Magari dopo un ascolto massivo di Kosmische Musik unito all’assunzione sconsiderata di allucinogeni, chissà. Un juke-box di piccole dimensioni, affettuosamente chiamato “baby”, a cui seguì il C-111 che era una versione più classica in legno “woodrail”, tipo credenza della nonna, per fare pendant con l’arredamento delle birrerie crucche degli anni ’70. ‘Sti affarucci potevano contenere un massimo di 10 cassette, le cui custodie venivano posizionate dietro il vetro superiore in bella vista. C’erano un carosello girevole e, non esistendo al tempo la testina autoreverse, meccanismi doppi della Philips: uno per la riproduzione di ogni lato della cassetta. Si poteva scegliere di ascoltare una singola facciata o entrambe, a costi ovviamente diversi. Se si sceglieva un solo lato il primo dei due meccanismi a fine canzone riavvolgeva il nastro prima di riporlo nel vano contenitore del carosello. Se si selezionavano entrambi i lati, il meccanismo alla fine del primo lato veniva inserito nel secondo meccanismo che provvedeva a suonare il secondo lato.
È pleonastico specificare che si trattò di un flop commerciale di dimensioni epiche, come ha fatto notare il solito Claudio Tosato: “L’ideale, sia per il trascinamento della cassetta che per la riproduzione del nastro, erano le cassette originali della durata massimo di 20 minuti per lato, oppure la classica C60 registrata. La versione da 90 minuti era sconsigliata poiché troppo lunga. In Italia questo modello di juke-box non ha mai avuto molto riscontro nei bar ed è stato destinato invece all’uso casalingo o per il classico negozio di dischi dell’epoca. In seguito fu importato negli USA presso la sede storica in North Tonawanda, New York, riscontrando poco successo anche presso il popolo americano.”
Parlando di cassette e di etichette discografiche votate a questo vetusto quanto affascinante formato, è un piacere tirar dentro la Dumpster Tapes che, a mio parere, ha pubblicato uno dei più bei dischi del 2015. Sto parlando dell’album omonimo dei Flesh Panthers, unica uscita curiosamente stampata a 33. Sono in contatto da un po’ con Ed, uno dei due tipi dietro all’etichetta di Chicago, a cui ho posto alcune veloci domande che vanno a toccare anche il juke-box.
Quando è nata l’etichetta?
La Dumpster Tapes siamo io (Ed McMenamin, ndr) e Alex Fryer. Abbiamo iniziato a pensare all’idea di mettere su un’etichetta un paio d’anni fa e, detto fatto, la nostra prima uscita è stata realizzata il primo novembre del 2013. Andando ad un sacco di concerti qui in zona, abbiamo visto che molte valide band locali non avevano alcuna uscita ufficiale, così ci siamo detti che sarebbe stato divertente e utile farla noi un’etichetta. Devi sapere che a Chicago c’è una grande scena musicale DIY, ogni giorno ci sono band incredibili che puoi veder suonare ovunque: scantinati, cortili, saloni di case private, vetrine di negozi, piccoli bar, locali, ecc.
Perché la cassetta?
Sia io che Alex siamo da sempre grandi amanti della cassetta. È un formato ottimo per le band che possono far uscire la loro musica su un formato fisico, tangibile, in modo rapido e soprattutto economico. Inoltre le cassette sono comode: ad un concerto puoi comprare una cassetta della band che sta suonando e infilarla facilmente in tasca. Ritengo anche che ogni nastro abbia una qualità umana, intangibile, collegata all’artwork e alla natura limitata di ogni uscita. Ad oggi come Dumpster Tapes abbiamo pubblicato 13 cassette e, come sai bene, un solo album in vinile, l’esordio dei Flesh Panthers, co-prodotto con Tall Pat Records.
Quali “tape label” vi hanno influenzato?
Ovviamente la Burger Records rimane una grande influenza per noi. Devo dire che le nostre etichette preferite stanno qui a Chicago, parlo di Randy Records e Tall Pat che stanno facendo uscite davvero killer. Ci piacciono anche Goner, Slovenly, Bachelor, Hardly Art, Rubber Vomit Records e molte altre.
Adesso parliamo di juke-box…
Mi piacciono molto. Alcuni bar di Chicago si sono convertiti ai juke-box moderni “digital touch tunes” che non mi fanno impazzire. Preferisco andare nei posti che hanno dei vecchi juke-box che i proprietari o i baristi illuminati hanno rifornito di dischi davvero eccellenti. Ci sono ancora un sacco di juke-box in città: ad esempio al California Clipper c’è un juke-box gratuito e praticamente non c’è una canzone brutta al suo interno. Devo anche dirti che mio zio Bob ha un fantastico juke-box in casa, un Seeburg del 1955! Lui e la sua famiglia sono stati per me una grande influenza musicale quando ero ragazzino. Ricordo che avevano uno dei primi masterizzatori CD e mi duplicavano un sacco di dischi alternativi che a quell’età non avrei potuto ascoltare in radio o altrove.
Sapevi che la Wurlitzer ha prodotto un piccolo juke-box a cassette negli anni ‘70?
Non lo sapevo! Direi che è fantastico. Grazie di avermelo fatto conoscere… non avevo mai visto un juke-box a cassette prima, ma qui in città un bar chiamato The Owl ha costruito un affare, una specie di macchinetta automatica come quelle che distribuiscono snack, con dentro cassette di band locali. Il bello è che viene continuamente rifornito.
JUKEBOX EXPLOSION
Chiudiamo con un bel disco a tema, ché siamo pur sempre una zine musicale. Nel 2007, come i più attenti di voi sapranno, la In The Red ha dato alle stampe su CD e vinile Jukebox Explosion con una copertina che ricalca, facendone la parodia, quella del primo volume di Back From The Grave, in entrambi i casi opera di Mort Todd: fumettista, scrittore, regista e chi più ne ha più ne metta che, tra le tante cose, è stato direttore di “Cracked Magazine”. Dei 18 pezzi contenuti nella raccolta, 10 sono presi di peso dai primi cinque 7” della Explosion Juke Box Series, sfavillanti 45 giri con buco grande e copertina generica tutti corredati dall’etichetta (o title-strip) per juke-box. Una succosa raccolta che ci mostra le tante facce della Jon Spencer Blues Explosion, quella più cruda, primitiva e noise ma anche quella groove, punk e bluesy.
Bello ignorante, dritto per dritto e alla portata di tutti, è il boogie hard’n’roll Ghetto Mom, lato A della quinta uscita datata 2002 della Juke Box Series. Il pezzo proviene dalle session di Plastic Fang ed è stato prodotto da Steve Jordan che ci suona pure il basso. Pare che il multistrumentista sodale di Keith Richards negli X-pensive Winos tra un “Goddamn” e l’altro abbia categoricamente vietato l’uso di alcol in studio. Ma devo confessarvi che il mio brano preferito non è tra quelli pubblicati nella Juke Box Series. Io sbarello letteralmente per il noise souleggiato Push Some Air, un incrocio tra James Brown e i Cows, lato A di un rarissimo singolo dato alle stampe nel 1995 dalla misconosciuta etichetta brasiliana Barulho Del Mal in occasione del primo tour del gruppo nella terra del carnevale e dei culi più belli del mondo. Il dischetto era disponibile solo nel banchetto del merchandising e andò sold out già alla seconda data del tour a Fortaleza. Ho sentito dire che gran parte delle copie uscì fallata, con il vinile deformato e quindi non riproducibile. Bella inculata, per rimanere in tema.
Per onestà devo dire anche che ho seguito e rispettato Jon Spencer ma, detto tra noi, lui non mi ha mai preso più di tanto. A pelle. E forse ci avevo ragione ad essere sospettoso ché poi nel 2007, casualmente lo stesso anno dell’uscita della raccolta di cui sto cianciando, ce lo siamo ritrovato a collaborare con Eros Ramazzotti nel pezzo Taxi Story. Si dice l’abbia fatto per il bieco denaro e per la fregna, ops… la pussy galore, che pare sia uno degli hobby in comune con l’ex ragazzo di borgata. Della Blues Explosion sono sempre stato più attratto da Judah Bauer e Russell Simins, assieme per un periodo negli Honeymoon Killers e, poco prima di unirsi al marito di Cristina Martinez (perché questo qui è il vero capolavoro di Jon, non Crypt-Style! o Extra Width), nei misconosciuti Crowbar Massage che hanno lasciato ai posteri solo due 7”. Tra questa coppia di comprimari di lusso ho un vero e proprio debole per il corpulento Russell. Una ventina d’anni fa sono rimasto sotto all’affascinante progetto Butter 08, messo in piedi con Yuka Honda e Miho Hatori dei Cibo Matto, sfociato nell’album prodotto nel ’96 dalla Grand Royal di Mike D dei Beastie Boys. E ancora prima ero andato completamente fuori di testa per l’omonimo album del 1993 dei Crunt, il supergruppo che vedeva il nostro nelle retrovie con Kat Bjelland delle Babes In Toyland e Stuart Gray dei Lubricated Goat, all’epoca marito e moglie, a fare da punte di sfondamento. Qualche mese fa dal mio pusher di vinile ho trovato il loro unico 7” Swine/Sexy, pubblicato nel 1993 dalla misconosciuta label australiana Insipid Vinyl. Non credevo ai miei occhi mentre accarezzavo coi polpastrelli la superficie liscia e immacolata del piccolo vinile. Ed è stata tanta la gioia che nemmeno ho dato peso a quel maledetto buco piccolo inadatto al juke-box.
La seconda parte delle Cronache del (mio) juke-box è stata pubblicata sul n. 3 della Rock Zine SOTTO TERRA di ottobre 2015.
Da buon punk di provincia terra terra (o forse sarebbe il caso di dire sotto terra), nella musica ho sempre apprezzato l’urgenza. E cosa c’è di più urgente di un 7” che gira a 45 giri? Gli album spesso mi annoiano, sovente sono zeppi di riempitivi con 3, massimo 4 pezzi buoni circondati per lo più da fuffa. A meno che non si tratti di concept i quali, spero converrete, sono merda prog da cui tenersi a debita distanza. Per questo ho sempre acquistato singoli in vinile, a partire dalla fine degli anni ‘80 e ancor più negli anni ’00 e ’10 complice il juke-box che fa bella mostra nella mia sala: un Rock-Ola 463del 1976 con 50 dischetti per 100, o più, selezioni. Non un juke-box di particolare valore, intendiamoci. Niente a che vedere con i primi modelli degli anni ’30 e ’40 il cui design era influenzato dall’Art déco, quei grossi affari in legno pregiato che parevano credenze di case nobiliari. E neppure paragonabile ai fantastici modelli degli anni ’50 e ’60 nei quali la facevano da padrone acciaio e plastica con un’estetica che ricordava gli aeroplani e le Cadillac. Tuttavia una gran bella macchina compatta, dal design moderno, quasi pop-art e vagamente sadomaso con quelle pareti laterali ricoperte di vinile lucido.
Ho
sempre subito la fascinazione del juke-box ma la fissa vera e propria m’è venuta
a metà degli anni ’90 dopo esser capitato ad una fiera dove c’erano tutti
questi luccicanti apparecchi di riproduzione musicale automatica che fanno tanto
“Happy Days”. Ho iniziato così ad approfondirne la storia, leggendo e
appassionandomi delle alterne e curiose vicende che ne hanno segnato il
cammino. In quel periodo stavo per laurearmi e assaporavo già cosa mi sarei
regalato per l’occasione, ma non si può essere degli Arthur Fonzarelli
per tutta la vita e poi si sa come vanno queste cose. Nel frattempo c’è da tirare
a campare, trovarsi un lavoro, assumersi delle responsabilità. E il tempo passa
che neanche te ne accorgi. Fatto sta che ho coronato il sogno di avere a casa
un vero juke-box una decina d’anni dopo, vale a dire dieci anni fa esatti, che
ci avevo l’età di cristo e la fedina nuziale d’oro bianco sull’anulare ancora
lucida. Nel momento dell’acquisto è pure accaduta una vicenda comica che stava
per sfociare in tragedia rendendomi orfano di padre, magari ve la racconterò in
un’altra occasione.
Ricordo l’eccitazione elettrica il pomeriggio che sono andato a ritirarlo, il culo immane che ci siamo fatti a salirlo per le scale in quattro persone, lo stato di trans dei primi giorni quando rimanevo ore a fissare il nuovo ospite che sputava dalle quattro casse musica selvaggia a volumi da spaccare i vetri. A dirla tutta ricordo anche la monnezza che ci ho trovato dentro, ovvero tutti quei dischetti insulsi del Festivalbar biennio ’92-’93 immediatamente accantonati per fare spazio alla musica che mi ha segnato e continua a segnarmi la vita. Il juke-box l’ho subito plasmato a mia immagine e somiglianza, divertendomi un mondo a creare le etichette dei 50 dischi titolari più quelle di un altro centinaio di 45 giri in panchina sempre caldi e pronti a girare. Le colonnine da 10 dischi ciascuna le ho ordinate secondo la logica che mi è parsa più sensata. Nella prima dischetti Sixties; nella seconda roba dei Settanta, per lo più stupefacente punk ’77; nella terza ci ho infilato i miei anni ’80 da cui sono uscito vivo e vegeto (anzi mi hanno salvato proprio la vita); nella quarta alt-rock dei ‘90, la quinta e ultima è occupata da pattume lo-fi punk e weird-garage dei giorni nostri. L’unico strappo l’ho fatto concedendo qualche dischetto a mia figlia (Giro giro tondo, la sigla di Arnold, Pippo Franco, Topo Gigio) per cui è stata sacrificata la quarta colonnina con corollario di paranoie sui dischi da togliere che potete ben immaginare.
BUCO GRANDE VS BUCO
PICCOLO
In quel fatidico 2005, anno in cui è entrato a casa il Rock-Ola, ignoravo una questione tutt’altro che secondaria: nei juke-box girano i 45 giri con buco grande, non è sempre così ma nella maggioranza dei casi sì. E la cosa si rilevò un problema, un grosso problema. Che faccio, mi dissi, non ci metto il 7” Freak Scene dei Dinosaur Jr? Suvvia non scherziamo. Se avessi avuto la prima versione del singolo su SST o quella tedesca su Normal non ci sarebbero stati problemi, ma ho la ristampa su Sweet Nothing con quel cazzo di buco piccolo. Così, con l’entusiasmo furioso dei cretini patentati, mi sono lanciato a testa bassa nell’improbabile impresa di allargare il buco con un coltellaccio da cucina. Il risultato è stato che ci ho perso un paio d’ore buone, ho sudato come una pornostar di colore e ho rovinato irrimediabilmente il dischetto in questione. Quella notte sognai pure J Mascis che mi seguiva mentre andavo al lavoro. Pareva Raymond Babbitt in Rain Man ma non diceva una parola e non sapeva neanche fare di calcolo. Nel suo mutismo accusatorio era solo fastidioso. Il danno e il conseguente incubo mi hanno messo addosso una paranoia che è cresciuta in modo esponenziale quando, dopo aver trascorso l’intero pomeriggio a controllarli uno ad uno, mi sono accorto che metà della mia collezione di 45 giri aveva il buco piccolo.
Come fare? Per fortuna, girando in rete, ho trovato e subito acquistato quello che dalle mie parti viene chiamato il fattapposta, un affare specificatamente atto a modificare il buco piccolo dei 45 giri che quelli bravi con l’inglese chiamano hand dinker o hole cutter. È un tipico attrezzo a “T” con la parte finale, l’innesto, che s’infila nel buco piccolo del 45 giri e una lama che ruota a mo’ di compasso per allargare il buco. Il problema non sta nei 45 giri americani che di solito hanno tutti un bel bucone centrale: se avete qualche dischetto della Sub Pop a casa buttateci un occhio. Il casino è al di fuori degli USA dove i 7” hanno di solito il buco piccolo, soprattutto in Inghilterra e Australia. L’utilizzo dell’hand dinker è l’extrema ratio, sia chiaro, perché vai a mangiarti la grafica e le scritte presenti sulla label del dischetto. Lo so bene perché, per infilarli nel juke-box, ho rovinato sette pollici di Jesus And Mary Chain, Cure, Pixies e tanti altri, li mortacci loro, e mi rifiuto di fare lo stesso con alcune perle di Aussie Rock su Citadel o Truetone come lo split Deniz Tek/Radio Birdman, Johnny dei Celibate Rifles o il primo 7” dei Bam Balams.
Il mio juke-box
Ma che storia è questa del buco grande e del buco piccolo? Perché? Be’ la storia è tutto sommato semplice. Nel 1931 la RCA Victor inventò il 33 giri ma fu un fallimento commerciale tale che appena due anni dopo bloccarono la produzione. D’altronde si era nel pieno della Grande Depressione e figuriamoci se la gente poteva spendere per la musica. Solo nel 1939 alla Columbia iniziarono a ripensare a quel progetto per fornire ai consumatori un formato affidabile e poco costoso. Nove anni dopo, nell’estate del 1948, presentarono in via ufficiale il Long Playing a 33 giri, il classico 12 pollici con buco piccolo al centro dell’etichetta, o label che dir si voglia. Alla RCA la cosa non andò giù e di tutta risposta tirarono fuori il 45 giri del diametro di 7 pollici con la particolarità del buco grande centrale. Lo immisero sul mercato l’anno seguente in pompa magna con tanto di impiantini ad hoc per la loro riproduzione che non contemplavano la possibilità di ascoltarci sopra i 33 giri con buco piccolo. Il buco grande fu adottato quindi per questioni commerciali, per cercare di annientare la concorrenza, niente più e niente meno. Tant’è che tra le due Compagnie iniziò una cruenta battaglia durata almeno un paio d’anni nei quali gli ascoltatori americani brancolarono nel buio non capendo quale fosse il formato migliore per ascoltare musica. La verità è che non c’era un formato migliore dell’altro tra il 7” a 45 rpm e il 12” a 33 rpm, figuriamoci se potevano incidere le dimensioni del buco centrale. A onor del vero in seguito si disse che la scelta del buco grande nei 7” aveva alcuni vantaggi, ad esempio facilitava la presa da parte del braccio meccanico e il conseguente alloggiamento sul piatto dei juke-box, oppure che rendeva più comodo prenderli con le mani senza toccare i bordi del vinile con le dita, anche nel caso di più dischi insieme.
IL JUKE BOX DEL
DIAVOLO
In molti hanno subito e continuano a subire la fascinazione del juke-box nell’ambito del garage e del punk (con prefissi e suffissi a scelta), del r’n’r non ammaestrato e fuori fuoco che piace a noi, insomma. Parlo di semplici appassionati come me e soprattutto di artisti ed etichette. Qualche operazione discografica puzza di bieco marketing sull’onda del sempre remunerativo effetto nostalgia, altre sembrano dettate da una passione sincera: per stare ai giorni nostri penso alle prime venti uscite della Trouble In Mind Records di Chicago, tutti 45 giri con buco grande avvolti dalla “sleeve” generica forata con il logo dell’etichetta.
Ma facciamo un bel passo indietro. Mentre si stavano gettando le basi per abbattere il muro di Berlino, una cellula anglo-americana di terroristi sonici lo stava invece erigendo un muro. Un bel muro di suono. Ad ottobre del 1989 la Blast First diede alle stampe su vinile, cd e cassetta una rumorosissima compilation, non a caso ribattezzata “complication”, intitolata Nothing Short of Total War. La raccolta, con una tracklist un po’ diversa e dall’inequivocabile titolo The Devil’s Jukebox, è stata stampata anche in uno spettacolare cofanetto in simil velluto con dentro 10 sette pollici. Due le versioni disponibili: quella americana in 1.500 copie e quella inglese in 3.000 copie. Il cofanetto è nero e in entrambe le edizioni c’è la stessa grafica, ma nella prima compare in copertina la scritta “Blast First U.S.” con un lettering multicolore a mo’ di arcobaleno, mentre nella seconda il lettering è di un bellissimo rosso sangue rappreso. Ok, queste sono menate per collezionisti che ci interessano fino ad un certo punto. Mi interessa però farvi notare la bizzarria della questione buco grande/buco piccolo. Trattandosi di una edizione che richiama esplicitamente il juke-box, ci si aspetterebbe il buco grande. Manc po’ cazz’, come direbbero ad Oxford. Le copie della versione USA hanno il fottuto buco piccolo, le inglesi quello grande. E anche questo, attenzione, è contro ogni logica. Si tratta della cosiddetta eccezione che confermerà pure la regola ma rompe anche un po’ i coglioni. Come detto in precedenza, infatti, sarebbe dovuto essere il contrario poiché di norma i 45 giri americani hanno il buco grande, mentre le stampe inglesi e australiane il buco piccolo. Va be’, d’altronde come dicono in molti “che ti puoi aspettare dall’unico popolo che guida a destra?”.
In The Devil’s Jukebox c’è musica noise per dervisci allucinati. Non proprio la musica più gettonata, niente a che vedere con la leggerezza dozzinale che fuoriusciva dai juke-box che ascoltavamo da ragazzi succhiando Fior di Fragola in spiaggia. Nella compilation della Blast First c’è la crema andata a male di noti dinamitardi del rumore che hanno raggiunto la prima linea dell’alternative rock a stelle e strisce. Dai Sonic Youth, anche nella variante con gli scaldamuscoli fluo Ciccone Youth, ai Big Black; dai Butthole Surfers ai Dinosaur Jr; dai Rapeman fino alle Lunachicks. Con loro padri nobili e free come Sun Ra e zii avanguardisti del calibro di Glenn Branca, nonché interessanti meteore tipo gli inglesi A.C. Temple e i Beme Seed di Kathleen Lynch, quella mezza matta che (s)ballava nuda nei Butthole Surfers nella seconda metà degli anni ’80.
OH SUSANNA NON PIANGERE PERCHÉ IL JUKE-BOX È TUTTO PER TE
Robert Poss
Nel diabolico pentolone sguazza anche la creatura dell’eclettico pioniere noise Robert Poss che, avendo imbarcato ben tre Susanne nella gruppo, scelse la ragione sociale Band of Susans, fuorviante e un filo demenziale a dispetto della musica e delle intenzioni serissime dell’autore. Per finire in bellezza l’articolo ho contattato l’uomo che ha fatto suo il motto “Distorsion is Truth” e gli ho posto un paio di domande, partendo dai ricordi giovanili che lo legano al fantastico apparecchio di riproduzione musicale automatica: “Quando ero ragazzino nei ristorantini, nei diners, c’erano spesso dei piccoli juke-box, di solito con dentro i successi pop del momento. Ad essere sincero non li utilizzavo molto, solo di tanto in tanto ci mettevo un centesimo o un quarto di dollaro, spingevo il bottone e selezionavo la canzone che volevo ascoltare. Erano apparecchi elettromeccanici che riproducevano musica registrata su 7” in vinile… a pensarci oggi sembra una cosa primitiva, solo un passo avanti ai Flintstones”. Appena nei juke-box ci è finita la sua musica però il buon Robert li ha utilizzati un po’di più, a quanto pare: “Ricordo che negli anni ’80, quando ho iniziato ad avere i miei primi dischi fuori, era emozionante andare nei localini dell’East Village, selezionare una delle mie canzoni nel juke-box e stare lì a vedere la reazione della gente”. È bene specificare che il nostro sperimentatore della sei corde non si riferisce solo ai Band of Susans ma anche ai Tot Rocket And The Twins, la sua prima band power-pop punk, che proprio nel 1980 esordì con il 7” Reduced/Fun Fades Fast In The USA. Per la cronaca il loro unico 12” Television Rules è stato pubblicato postumo nel 2005 dalla nostra sorella punk Rave Up Records. Ma facciamolo andare avanti, il buon Robert: “Va da sé che il materiale dei To Rocket e dei Band Of Susans non era masterizzato allo stesso modo di molte altre canzoni presenti nell’apparecchio, quindi i nostri dischi non avevano l’impatto sonoro delle hit dei nomi più grandi. Devo dire che era molto divertente ascoltare dal juke-box i dischi degli amici, dei colleghi e delle altre band del tempo”. Un’altra curiosità, o sega mentale per i collezionisti se preferite, è che nella versione cassetta e in alcune delle versioni su cd della compilation il gruppo compare con il pezzo Throne of Blood, mentre nel cofanetto di 7” c’è Hope Against Hope, la title track del loro primo album uscito l’anno prima: “Pensai subito che quella del box set di sette pollici fosse una grande idea. Fummo lieti e, ti dirò, anche onorati di essere inclusi. Mi pare di ricordare che io e Susan Stenger scegliemmo Hope Against Hope per il cofanetto dopo esserci consultati con Paul Smith, il boss della Blast First”. Altra particolarità di The Devil’s Jukebox sta nel fatto che a parte i singoli di Sonic Youth, Big Black e Head of David, gli altri sono tutti 7” split. Il Gruppo delle Susanne, ad esempio, condivide il vinile con gli A.C. Temple. Prima di salutarlo chiedo a Robert che ricordi ha della band inglese: “Per quanto mi riguarda sono stati una delle grandi band a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90”. I ragazzi di Sheffield hanno chiuso baracca a e burattini nel 1993, “abbiamo suonato assieme qualche volta, eravamo buoni amici. Quando uscirono mi colpirono molto i loro primi due album, così come le loro esibizioni dal vivo. Avevano un grande interplay chitarristico, una grande voce e un ottimo songwriting… un pacchetto completo, insomma. Dovrebbero proprio essere riscoperti”. Li riscopriremo, Robert. I lettori di questa zine sono abituati a tirar fuori le salme da sotto terra, al netto degli hipster, degli invasati, degli snob al contrario che pensano di far parte di una tribù di eletti e degli ottusi estremisti che Ty Segall è diventato una merda da quando fa i dischi su Drag City. Gentaglia peggio dei fan dei Muse, che temo bazzichi anche questi lidi.
Band of Susans
La prima puntata delle Cronache del (mio) juke-box è apparsa sul n. 2 della bella Rock Zine SOTTO TERRA di giugno 2015.
Sul numero 8 di Sottoterra, fresco di stampa tipografica (e che stampa!), c’è una nuova puntata delle “Cronache del (mio) juke-box”. Precisamente la terza puntata, che è un po’ diversa dalle precedenti. Stavolta mi sono divertito a ciarlare del juke-box che entra nei dischi, passando in rassegna le copertine e una quarantina di canzoni che lo celebrano dagli anni ’50 ad oggi. Canzoni spesso oscure, mi pare pleonastico ribadirlo, da Radio Jukebox and TV di Jimmy Donley a The Jukebox Will Cure My Ills di Al Bird Dirt, passando per Human Jukebox degli Scientists e Jukebox Lean dei New Bomb Turks. Ne avrò dimenticate diverse, questo è certo, ma mi spiace in particolare non aver citato Juke Box Hit che chiude The Maniac, il primo e unico album della Billy Karloff Band.
Cerco di rimediare subito con qualche flash su questo vecchio punk londinese, che in realtà nasce come John Osborn. Nella seconda metà degli anni ’70 si è ribattezzato Billy Karloff in onore dell’attore di film horror Boris Karloff. L’esordio è del 1978 con il singolo bomba Crazy Paving di cui si ricorda di più il lato B Back Street Billy: un pezzone in seguito coverizzato dai The Business. Sempre nel ’78 è uscito il già citato album The Maniac, curiosamente pubblicato solo in Spagna, Germania e Svezia.
A cavallo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 John Osborn/Billy Karloff sembrava potercela fare. Iniziò a collaborare coi Damned e nel 1981 pubblico l’album Let Your Fingers Do The Talking a nome Billy Karloff & The Extremes addirittura su Warner Bros.
Ma è rimasta una meteora. Una splendida meteora che ancora calca i palchi di mezzo mondo (soprattutto le periferie del mondo) sventolando il vessillo, invero un po’ sbiadito e farlocco, del glorioso punk inglese.
L’entusiasmante esperienza del 2015 (di cui ho scritto su rumoremag.com) mi ha convinto a tornare al Festival Beat. Lo scorso anno mi ero sentito in famiglia quindi ‘sta volta ho deciso di tornarci con la mia vera famiglia, Barbara e Martina: una grande moglie e una piccola-grande figlia. Ci portiamo dietro anche il figlioletto adottivo Andare in cascetta per presentarlo in società.
VENERDI1 LUGLIO
Neanche il tempo di varcare la soglia dell’Hotel Regina che alle 14:00 Martina già freme per andare in piscina. La accontentiamo subito, faccio giusto un salto in camera e m’infilo sotto la doccia ché con 500 Km sul groppone puzzo come un capriolo del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.
Circa tre ore dopo, nuovamente docciato (alla faccia di chi ritiene che i punk siano dei zezzoni), incontro il cattivo maestro e amico Luca Frazzi. È sempre un piacere rivedere le persone che stimo, e tra queste Luca è sul podio. La stima nei suoi confronti accresce ancor più quando mi confessa qual è l’esplosivo lavoro che svolge ora. Insieme intratteniamo gli astanti del Cafè Desiree parlando di rock and roll di carta. Io della raccolta di microracconti Andare in cascetta che ho curato e (auto)prodotto assieme al compagno Maximiliano Bianchi. Lui di Sottoterra, la rock zine che dirige è che di fatto è il secondo lavoro esplosivo di Luca in questo periodo della sua vita.
La presentazione a braccio, estemporanea, va oltre le mie aspettative. Mi rassicura la presenza della delegazione del vero Abruzzo garage-punk composta dagli amici di bagordi e r’n’r Max Garage, Il Sindaco, Fiorindo e i due Davide. Vedo le persone sorridere. E sorrido anch’io sotto i Rayban da sole graduati che mi fanno assumere le sembianze della cieca di Sorrento. Alla fine delle chiacchiere stringo mani a brava gente che si mette una mano sul cuore e l’altra sul portafogli comprando il libretto: la tenera Tiziana, Fabio Avaro, Moreno de Gli Avvoltoi, Tony Borlotti (senza i suoi Flauers), i grandi Bradipos IV e quella che ho ribattezzato la donna cannone, una corpulenta anziana che acquista anche la cassetta allegata dicendomi che è per suo nipote, un musicista serio che suona con De Gregori.
Un paio di aperitivi e arriviamo al Devil’s Den Pub dove i Cut hanno appena finito il loro set che mi dicono essere stato una martellata sulle gengive. Non ho alcun dubbio, ché stiamo parlando di uno dei migliori gruppi r’n’r italiani, devastanti dal vivo. Saluto l’amico Ferruccio e mi scuso per non esser riuscito a passare prima.
Dopo poco siamo nell’area concerti di Ponte Ghiara assieme a Marco Turci (The Chronics, Monogawa Dj Crew, ecc.) e alla sua splendida famiglia. Con i braccialetti gialli stretti al polso saltiamo la fila per la gioia gonfia di orgoglio dei nostri figli illusi di avere dei padri che contano. In realtà, non me ne voglia Marco, entrambi contiamo come il due di coppe quando comanda bastoni.
Io e mia figlia Martina ci mangiamo un hot dog vegano. Ci piace. Ci abbracciamo. Ridiamo. Nel frattempo sale sul palco Rolando Bruno che esteticamente è un incrocio tra Ramón Díaz e Calcutta. L’argentino è proprio “un simpatico pazzoide” come dice il libretto del Festival. Indossa un gran bella camicia e imbraccia una ancor più bella chitarra. Ci dà di fuzz, garage, cumbia, tropicalismo, simpatia e un pizzico di rabbia.
Los Retrovisores, foto di Serena Groppelli
Poi tocca agli spagnoli Los Retrovisores, un’allegra banda con tanto di sezione fiati calata dalla testa ai piedi nei Sixties del beat e del r&b più ballerino. Sono dichiaratamente i figli illegittimi di Emilio Baldoví Menéndez, meglio noto come Bruno Lomas, il che in tutta sincerità non mi fa né caldo né freddo. Durante il loro frizzante concerto, agevolato dalla presenza al mixer di Mike Mariconda, mia figlia raggiunge il gazebo dei bimbi dove colora e fa dei lavoretti artigianali. Io e Barbara andiamo sotto il palco e battiamo il piedino a ritmo. La mia signora ha su una tutina a righe che fa pendant con le magliette da marinai Bretoni indossate dagli spagnoli. Il set è gradevole, i ragazzi sono bravi, ci stanno dentro. Sul finire del live, Martina ci raggiunge trotterellando. Con dei bicchieri di carta riciclati, degli stecchini e dei semi ha costruito due maracas. Me le agita sotto il naso tutta contenta. La bacio e le do la buonanotte. Le mie donne se ne tornano in hotel e mi lasciano solo per i due ultimi attesissimi concerti.
L’impatto degli Strollers è ottimo. Di che se ne possa pensare non sono un grande amante del garage canonico, il Farfisa alla lunga mi rompe la minchia, tuttavia devo ammettere che per un attimo torno indietro di 15 anni e rivivo la magia di Falling Right Down! e Captain Of My Ship. Nei primi due-tre pezzi gli svedesi spaccano il culo ai passeri, ma poi si perdono. Ad essere impietosi direi che partono a razzo e finiscono a cazzo. Invero non è proprio così, buttano via la parte centrale e “sbagliano” scaletta. Il problema non è tecnico ma tattico. La pensa più o meno come me anche Claudio Sorge col quale scambio quattro chiacchiere proprio mentre i vecchi ragazzi di Örebro calcano le tavole di Ponte Ghiara. Qui tocca aprire una piccola parentesi: Claudio sarà sempre il “mio direttore”. È stato un piacere conoscerlo di persona visto che, incredibilmente, non ci eravamo mai incontrati prima. Che dire… magie del Festival Beat.
Siamo al gran finale. Gli Allah-Las entrano in scena alla chetichella, quasi in punta di piedi. La loro non è insicurezza ma tranquillità. Sono polleggiatissimi, come direbbero a San Giovanni in Persiceto. Uno stato che mantengono per tutto il concerto e che trasferiscono al pubblico. Almeno io lo percepisco così e mi fa stare bene. Al netto dei rimandi ai Love e a quel mondo lì, il Sixties sound sabbioso dei cinque losangelini è attuale come pochi nella sua perfetta linearità. Roba da tramonto autunnale in spiaggia, seduti sulla sabbia umida a viaggiare con la mente. Quando nel 2012 uscì il primo album omonimo non li compresi sino in fondo. Con Worship The Sun di due anni dopo mi hanno rapito. Stasera mi hanno definitivamente fatto prigioniero. Il cantante e chitarrista ritmico Miles Michaud è la serenità fatta persona, mi piace la sua voce e ha un carisma serafico. Il bassista Spencer Dunham è un tutt’uno col suo Mustang. Il batterista Matthew Correia nel bis infila le maracas e si piazza di fronte al microfono chiudendo in scioltezza il set che mi gusto sino in fondo prima di andare a dormire contento e oltremodo rilassato.
Allah-Las, foto di Serena Groppelli
SABATO 2 LUGLIO
Scendiamo in strada alla buon’ora agghindati come una famigliola friulana il primo giorno di ferie sulla riviera romagnola. Ci manca solo il materassino gonfiabile della Nivea a forma di saponetta. L’unica differenza sta nell’abbronzatura, d’altronde noi siamo gente di mare che se ne va dove gli pare. Poco dopo le 9:00 arriviamo alla Piscina Leoni e tocca aspettare per buttarci in acqua perché i bagnini non sono ancora al lavoro. Prendiamo sole. Tanto sole. Troppo sole. Ad un certo punto, stordito dalla canicola, mi ritrovo a mollo nella piscinetta dei bambini con Ferruccio dei Cut e Mass dei Female Troubles. La presenza al Festival di Kid Congo Powers ci fa discorrere amabilmente di Cramps, Gun Club e compagnia rantolante, nonostante il principio d’insolazione.
Pranziamo sotto l’ombrellone. Per lasciare ombra alle mie donne, la parte destra della mia zona dorsale rimane alla mercé di Helios. Il dio del sole si accanisce. Me ne accorgo quando rientriamo in hotel attorno alle 17:00. Dallo specchio vedo riflessa una striatura incandescente, praticamente il lampo rosso e blu di Aladdin Sane trapiantato sulla mia schiena.
Giretto in città e spritz defaticante sono d’obbligo in attesa della partita degli Europei Italia-Germania che decidiamo di seguire al Festival. Nel bel mezzo dell’aperitivo vedo Giuliano e Luna della libreria-negozio di dischi Polarville di L’Aquila che inforcano delle belle biciclette color crema: loro due ci hanno capito tutto della vita. Rientrati in hotel prendiamo l’ascensore assieme a Lutz Raeuber della Soundflat. Per rompere il ghiaccio biascico in inglese maccheronico qualcosa sull’imminente match. Lutz mi risponde una cosa tipo “se vinciamo ok, altrimenti siamo felici lo stesso… siamo al Festival Beat!”
La partita sta per iniziare. Come entriamo nell’area festival allungo una copia di Andare in cascetta al patron Gianni Fuso Nerini, che ringrazio per l’ospitalità, e punto il furgoncino vegano dove c’è già una discreta fila. Barbara e Martina vanno a prendere posto vicino al maxischermo.
Elli De Mon, foto di Serena Groppelli
È una serata strana, per ovvie ragioni. C’è chi non si schioda dalla partita e chi come me, invece, fa spasmodicamente avanti e indietro tra il palco e il maxischermo. Mia figlia rimane ipnotizzata da Elli De Mon e dal suo gambaletto a sonagli. Guadagna la transenna, ci si piazza sopra e si gusta il breve concerto di una delle migliori one woman band europee. Elisa conferma dal vivo ciò che ho apprezzato nei suoi dischi e ancora prima in quelli delle Almandino Quite DeLuxe. La preferisco quando lambisce le rive del Mississippi piuttosto che quando va in pellegrinaggio sul Gange, ma sono gusti.
I Sick Rose salgono con una carica spaventosa. Alla fine del primo pezzo l’atletico Luca Re è già tra la gente sotto il palco. Spiace davvero per la concomitanza con la partita perché i torinesi sono a mille e chi è inchiodato di fronte allo schermo si sta perdendo un gran concerto. Stasera stanno celebrando al meglio il trentennale di Faces, il loro esordio da poco ristampato in una bella edizione in vinile che faccio mia all’istante. L’attitudine della Rosa Malata è da incorniciare, il suono è “voluminoso” da grande band quale sono. Come mi fa notare Max Garage, Luca Re ha una voce migliore di quando era giovane e capellone. Mia figlia non ce la fa più per la stanchezza. D’altronde ha solo 7 anni, ascolta i Big Time Rush e ha già resistito abbastanza. Prima di lasciarle andare dico a mia moglie che quei tipi sul palco sono gli autori di Barbara: 10 anni fa ho piazzato nella home page di questo blog i versi “Barbara / Don’t tell me not to fall in love / No matter what you do or say / I’m gonna love you anyway”. Barbara mi bacia. E ci mancherebbe altro.
The Sick Rose, foto di Serena Groppelli
La partita va per le lunghe e io continuo a fare su e giù dal palco al maxischermo. Prima che Kid Congo and The Pink Monkey Birds attacchino a suonare passo al banchetto di Sottoterra. Saluto il megadirettore e Joe Fuzz, rivedo Luca Orzi e Sara, scambio due chiacchiere con Lorenzo Belli Capelli. Su Kid Congo è doverosa una premessa: nell’estate del 1990 mi stesero una compilation che conteneva La Historia De Un Amour, pezzo tratto da un EP che penso sia la sua prima uscita solista. Il tipo che mi fece la cassetta aggiunse che Kid era stato il chitarrista dei Gun Club e dei Cramps e che da un po’ stava suonando con Nick Cave. Questo per dire che Brian Tristan (questo il suo vero nome) lo considero un po’ come uno di famiglia.
Il 57enne è elegantissimo nel suo completo a righe avana con tanto di copricapo da Giovani Marmotte. Che sia in serata lo si capisce da come si muove e dalle pillole d’amore che dispensa al pubblico. Purtroppo me lo vedo a spizzichi e bocconi per via dei tempi supplementari e dei rigori. Ma quello a cui assisto è SPETTACOLARE. Il miglior concerto del Festival. Il gruppo è una macchina da guerra con un batterista mostruoso. Kid un entertainer di primissimo livello. Partito dalla spiaggia di Venice Beach e transitato dai cessi luridi del CBGB, oggi è un sardonico soul man delle catacombe, il punto di congiunzione tra Screamin’ Jay Hawkins e Jonathan Richman. E non saprei formulare complimento migliore. Chiude con una versione nostalgica di Sex Beat che mi fa venire brividi pesanti. Guardandomi attorno noto di non essere il solo.
Kid Congo and The Pink Monkey Birds, foto di Serena Groppelli
I rigori ci puniscono e così la massa pallonara, di cui sono parte, si riversa ammutolita sotto il palco. I Nomads non fanno nulla per tirarci su il morale, spiace davvero dirlo. I vecchi eroi del garage rock scandinavo, in sella da 35 anni tondi tondi, stasera sono spompati. Mi impegno a farmi piacere il set, ma non ce la faccio a mentire a me stesso e dopo 4-5 pezzi mollo l’osso. Ne approfitto per dare un’occhiata tra i banchetti di vinile. Le cose più interessanti a prezzi migliori si trovano da Area Pirata. Mi fermo a chiacchierare con Jacopo e Tiziano, i boss dell’etichetta, da cui scrocco per me e Ferruccio/Cut un passaggio in hotel. Prima di andar via incrocio Fausto e Piera, ovvero Jungle e She Hellcat dei Killer Klown, che stanno di fretta. Scambiamo 2-parole-2, giusto il tempo di dire a Fausto che col supergruppo Lucyfer Sam hanno tirato giù un album della madonna, guarda caso con su impresso il logo di Area Pirata.
PS: è stato un gran bel week-end. Durante il viaggio di ritorno Barbara e Martina mi hanno detto che si sono divertite assai e che il prossimo anno vogliono tornare. “Magari una settimana intera” ha aggiunto mia figlia, “così andiamo alle terme e in piscina tutti i giorni”.
Amo le mie donne. E amo anche il Festival Beat.
Le bellissime foto dei gruppi che vedete sono di Serena Groppelli (dalla pagina Facebook del Festival Beat)