Santo & Johnny, Santo Barbaro, Santo subito

SANTO BARBARO
Geografia di un corpo
(diNotte)

santobarbaro_geografiadiuncorpoQualche giorno fa mi è capitato di rimettere sul piatto uno dei primi singoli di Santo & Johnny, il celeberrimo Sleep Walk/All Night Diner del ’59 a cui mi sono subito abbandonato lasciandomi cullare. Per assonanza ho pensato al nuovo album dei Santo Barbaro che da circa un mese staziona sopra la piastra per le cassette: posto dove lascio a bagnomaria i cd che mi sono piaciuti per tenerli a portata di mano e orecchie, o quelli che non mi hanno convinto ma a cui sento di dover ridare una chanche.
Geografia di un corpo, terzo o quarto album del duo di Forlì, non lo so di preciso, rientra appieno nella prima categoria poiché mi ha convinto sin dal primo ascolto. Un disco che fa pensare alla solitudine esistenziale di Michel Houellebecq e dei Joy Division. Non il massimo dell’allegria, d’altronde c’è poco da stare allegri. Suonerà retorico eppure mi sento di dire che i Santo Barbaro incarnano alla perfezione questi nostri tempi confusi e alquanto barbari, appunto. E lo fanno con una poetica personale, spingendo il cantautorato verso il baratro, nelle oscure sperimentazioni psych-tribali della wave e del post punk. Pieralberto Valli usa le parole da scrittore vero (qual è, in fondo), col contagocce, giocando di sottrazione e reiterazione immaginifica: penso a Pavlov, Zolfo e soprattutto a Finché c’è vita, un pezzo che i vecchi fan dei vecchi Marlene Kuntz stanno ancora aspettando invano.
Geografia di un corpo è un disco di rock eruttivo, vulcanico, magmatico (che poi sono la stessa identica cosa ma la tripletta rafforza l’idea), dove giganteggiano la virulenza opalescente di Ora il presente e Corpo non menti che mi ha fatto immaginare i CCCP rapiti e costretti a suonare in una balera romagnola degli anni ’70 sotto LSD.
I titolari della sigla Santo Barbaro sono due, il già citato songwriter Pieralberto Valli e Franco Naddei che maneggia l’elettronica. Con l’aiuto di amici per questa occasione sono diventati nove: 2 chitarre, 2 bassi, 2 batterie, 2 percussioni e 1 synth. Una bella squadra di musicisti che si sono chiusi per tre giorni in un casolare di campagna dove hanno registrato live, in presa diretta, gli undici pezzi di questo disco. Che è un gran bel disco, se non lo si fosse ancora capito.

Recensione pubblicata esattamente un mese fa su BLACK MILK di uno dei più bei dischi italiani cantati in italiano dell’anno passato, secondo me.