FREEZ: indie nostalgia prendimi e portami via

Chi è aduso ad ascoltare dischi per poi provare a raccontarli, trova quasi subito la chiave critico-narrativa per farlo. Raramente capita di mettere su un disco a ripetizione e non riuscire a trovare le parole giuste. È questo il caso. Icebreaker, il secondo album dei Freez pubblicato da Wild Honey Records su un bel vinile color rosa, lo avrò ascoltato per intero almeno 30 volte. Sempre con estremo piacere. E sono ancora qui: piacevolmente confuso.

Freez è Michele Bellinaso, ventiquattrenne di Schio ma padovano d’adozione. Un vero talento underground sottotraccia. Ha iniziato a scrivere le canzoni di questo album a gennaio del 2020, subito dopo il tour europeo e poco prima che il mondo si fermasse. Quasi tre anni di lavoro hanno impresso al disco un mood nostalgico e un tono riflessivo. La doppietta d’apertura, Icebreaker e Chanel, culla come il vento d’autunno. Jangle punk dalla consistenza di un orso di peluche che prosegue nella lenta elegia di Slowly. La mia mente va ai coevi francesi Horsees, che mi piacciono molto e ho “celebrato” più volte sulle pagine di Rumore.

Il lato A dell’album si chiude con quel piccolo capolavoro che è April ’21, chitarra acustica di discendenza australiana – non posso che pensare agli inossidabili Church – basso a molla, la voce masticata di Michele da giovane Lou Reed che si incrocia con la voce dolcissima di Alice (la sua ragazza) degna della soave Natalie Merchant dei 10,000 Maniacs.

La partenza del secondo lato è sonica. Tempo fa Michele mi disse: “I Wavves sono stati il motivo per cui abbiamo iniziato a suonare”. Ascoltando Nothing direi che sono anche uno dei motivi perché, vivaddio, continuano a farlo. Ma evolvendosi, visto che l’album sfuma nell’acustica nuda e totale di June ’22.

Dov’è la modernità in tutto ciò? Non saprei. Non è questo il punto. Per amor di cronaca segnalo tuttavia la presenza discreta dell’autotune: “Utilizzato come un tool, uno strumento al servizio della voce“, dichiara Michele.

Prima di scrivere questa recensione pubblicata esattamente un anno fa, su RUMORE di dicembre 2023, ho posto un paio di domande a Michele Bellinaso. Eccole.

Da dove vieni?

Sono nato e cresciuto a Schio, ma da qualche anno vivo a Padova… tra l’altro sto preparando le scatole per il trasloco. Questo fine settimana entro in casa nuova!

Leggo che hai scritto l’album nel periodo della pandemia 2020-2022: mi pare rifletta anche nelle sonorità una certa nostalgia e un mood più riflessivo.

Sì, le prime canzoni sono nate in modo molto spontaneo all’inizio della pandemia, ma a ripensarci ora un paio di pezzi risalgono a gennaio 2020, subito dopo il tour europeo. Riflessivo sicuro, non avevo molto da fare in quel momento a dire la verità. Altre canzoni più mature e dolci invece sono state scritte nella casa di Padova dove sono ora, e che tra qualche giorno appunto lascerò, in concomitanza con l’uscita del disco.

Curiosa l’immagine di copertina con la tua faccia e i testi sopra, a cosa ti sei ispirato?

Più o meno inconsciamente ti direi Gladness (2001-2006) degli Helvetia. Pure quel disco ha una foto tessera come immagine di copertina. Per la tipografia invece mi piaceva condividere i testi in primo piano sull’artwork, poi fa ridere avere la cover del vinile che sembra l’inserto interno del disco.

In occasione del primo disco mi dicesti che i Cloud Nothings non sono stati una tua ispirazione: nel frattempo è cambiato qualcosa?

Diciamo che li ho ascoltati più spesso negli ultimi anni, però sempre sporadicamente a dire la verità. Nothing Hurts (feat. Wavves) del disco No Life For Me però la conosco a memoria, quella lì è un capolavoro.

Ho apprezzato molto l’incrocio con la voce di Alice Manzardo in quel paio di canzoni…

Grazie! Mi piaceva l’idea di fare una canzone dove due voci diverse si alternassero. Ad aprile 2021 ho scritto la demo di quella che poi è diventata April ‘21 pensandola per la voce di Alice, il giorno dopo l’abbiamo registrata e quello dopo ancora l’abbiamo pubblicata su SoundCloud per divertimento. C’è da dire che le voci di questo disco sono state tutte registrate a casa dei suoi genitori, quindi lei era sempre presente durante le registrazioni… è stato semplice incastrarla a cantare. Nella lista delle cose da fare appena entro in casa nuova, la prima è ascoltare il nuovo disco insieme ad Alice.

THE LINGS: West Coast sound e power pop made in Italy

Dove sta scritto che l’Italia non può avere un grande gruppo power pop contemporaneo? Genere che per suonare credibile richiede freschezza e maturità, oltre che talento. Tutte caratteristiche possedute dai Lings, quattro ragazzi che provengono dall’asse tra Mantova est e la bassa veronese e che nel corso degli ultimi anni hanno accumulato esperienze in gruppi belli duri come Antares, Komet, Dots, High School Lockers, Thunder Bomber.

Chiedo al cantante e chitarrista Paul come è nato il progetto musicale e cosa li ha spinti ad abbracciare sonorità più morbide: “Durante il Lockdown mi sono ritrovato con un sacco di canzoni e bozze messe da parte negli anni e ho scelto di arrangiarle con Bryan, Alberto e Andrea, che oltre ad essere amici di lunga data sono anche ottimi musicisti. Il pop r’n’r ci accompagna da sempre, credo che questo tipo di forma canzone sia il filo conduttore di tutte le formazioni a cui abbiamo preso parte. Anche nel punk più duro sentiamo la necessità di costruire un pezzo catchy. Inoltre io e Bryan facevamo parte dei Tree House Society, band power pop nata dalle ceneri degli Highschool Lockers, e una decina d’anni dopo con i Lings abbiamo ripreso il discorso rock-melodie-coretti”.

Un discorso che porta lontano. Agli anni ‘60 e ‘70 della West Coast, con armonie vocali e arrangiamenti che disegnano nostalgie luminose sulla sabbia. Rimanendo in California, anche al jangle pop folk ipnotico degli Allah-Las. Paul non sembra molto d’accordo: “Sarò sincero, non ho ancora capito perché ci paragonino agli Allah-Las, se c’è una vena psych surf viene dal riverbero fenderoso di Albe che ha Dick Dale in testa e nelle mani, oltre a una fortissima impronta jazz. E ad ogni modo le nostre influenze musicali non vanno oltre il 1999, di questo sono abbastanza certo”.

Come ho scritto nella recensione del loro primo album: “Senza tirarla troppo per le lunghe i Lings non sbagliano una virgola, cesellando ogni singolo passaggio dei 12 ispiratissimi pezzi”. L’esordio omonimo è stato pubblicato da Slack, un collettivo che ha sede ufficiosa a Gradara (PU): “Il collettivo Slack è molto semplicemente un gruppo di amici musicisti fissati per l’underground, mossi da stima reciproca e passione per l’autoproduzione. Gli abbiamo dato un nome che incita alla pigrizia e che ci rappresenta a pieno. Una decina di anni fa abbiamo iniziato a stampare in CD gli album delle nostre band per poi allargare la produzione a proposte esterne che ci vanno a genio, senza troppi limiti di genere. Ci dedichiamo anche all’organizzazione di concerti e di produzione grafiche”.

Per concludere mi faccio raccontare come è andata con la Kool Kat Music, l’etichetta statunitense che ha co-prodotto l’album e che nel proprio catalogo può annoverare nomi importanti del calibro di Nick Lowe, Plimsouls e Psychotic Youth: Kool Kat Music l’ho scovata l’anno scorso cercando etichette che potessero promuovere l’album oltreoceano. Ray mi ha risposto nel giro di poche ore desideroso di stamparne un CD e di farlo girare tra gli appassionati sparsi per il globo di questa nicchia che è il power pop. La cosa che lì per lì mi ha fatto sorridere è che l’etichetta ha sede a Mantua, nel New Jersey… l’ho considerato un segno del destino!”.

Una versione slim di questo pezzo-intervista è stata pubblicata su RUMORE di aprile 2023, nella sezione “Futura”.

Acidi raggi melodici sull’asfalto grigio di Nuova York

THE MEN New York City (Fuzz Club)

Noise evangelico, post hardcore coi capelli al vento, psichedelia alla griglia, art rock suscettibile in grado di fratturarti il setto nasale, country diagonale (o, se preferite, cow punk), space rock da fattoni tedeschi, fino al progressivo digrado verso un classic rock figlio di tutti e di nessuno, che alza un gran polverone southern.

In quindici anni di spasmodica attività musicale i newyorkesi The Men hanno coperto l’intero arco costituzionale del rock and roll underground. Una eterogeneità, seppur all’interno di un perimetro definito, che è stata una delizia ma anche una discreta croce.

Diciamo che negli ultimi album, fino a Mercy del 2020, di dritto o di rovescio Neil Young, Bob Dylan, Creedence Clearwater Revival, finanche i Doors, sono entrati sempre più nei loro dischi: tutti, o quasi, marchiati Sacred Bones.

E si iniziava ad averne abbastanza.

Col passaggio alla Fuzz Club i prolifici broccolini Mark Perro e Nick Chiericozzi si fanno una bella nuotata nelle acque torbide. A piene bracciate. Nessun intellettualismo in questi dieci pezzi saturi, registrati in presa diretta in un’inevitabile medio-bassa fedeltà. Dentro c’è solo l’asfalto grigio di New York illuminato da acidi raggi melodici.

L’apertura affidata a Hard Livin’ è un manifesto d’intenti con quel piano parkinsoniano, le chitarre a frusta bdsm, la voce stiracchiata che arriva direttamente dai bassifondi disastrati del garage punk.

Ancor più estrema l’isterica progressione hard stoner di Echo che si sfalda nello slabbratissimo anthem r’n’r God Bless The USA. La lentezza minacciosa di Eye e Round The Corner rappresenta i quasi 1.000 km che dividono New York da Detroit. Proto punk basico, depravato, spossante, in puro stile Stooges. Through The Night riporta ai tempi del glam punk vagabondo non ancora mascherato con zeppe, lustrini e inutili chincaglierie, che si divertiva a struprare l’hard rock. In chiusura si tira il fiato nella luminosa disperazione paisley di Anyway I Found You e con River Flows che pare un cero acceso alla memoria di Mark Lanegan.

New York City è un album r’n’r punk coi controcazzi.

Ciò che avete appena letto è la versione espansa della recensione pubblicata su RUMORE di febbraio 2023.

NEUTRALS: il fantastico mondo di bugie post punk

NEUTRALS – Bus Stop Nights EP (Static Shock)

Terry Malts, Magic Bullets, Airfix Kits, Cocktails, Giant Haystacks. Come si dice dalle mie parti, “fa prova” se conosciamo solo un paio di questi gruppi che hanno schierato nelle loro fila i componenti dei Neutrals: ennesima piccola-grande band DIY da amore al primo ascolto per chi, come me, piazza sui gradini più alti del proprio podio musicale il post punk e il power pop storto di matrice indie.

Il trio di Oakland si supera nell’abbagliante Gary Borthwick Says che ha un andamento super catchy (scusate ma non trovo un corrispettivo così potente in italiano), all’incrocio tra Fall e Undertones. Il cantante chitarrista Allan McNaughton si è trasferito a San Francisco nel 1995 ma è originario di Glasgow, l’accento non tradisce, e in un modo o nell’altro Shop Assistants, Josef K e Vaselines sono nel suo dna.

A proposito di Gary Borthwick mi ha detto Allan: “Non è una persona reale ma rappresenta un certo tipo di personaggio che vive in un mondo fantastico di bugie!”. La sezione ritmica dei due Phil (Benson e Lantz) è 100% California al crepuscolo. Il risultato sono quattro pezzi scritti benissimo da gente che ha interiorizzato la lezione di Hüsker Dü e Agent Orange per poi riscoprire il movimento C86 solo dopo, molto dopo, in età giusta… se non mi credete sulla parola, chiudete gli occhi e fatevi sorprendere dal fragrante aroma Wedding Presents della title track.

Per me singolo dell’anno. Senza se e senza ma.

Una versione più sintetica di questa pur breve recensione è stata pubblicata su RUMORE di maggio col voto 82/100. A distanza di qualche mese, e più di qualche ascolto, porterei il voto a 85/100. Almeno.

Del perdere pezzi e ritrovarli dentro due piccoli dischi

Sono stati pubblicati diversi mesi fa. Zöe dei NIGHTSHIFT a fine febbraio, What’s Growing dei WURLD SERIES a metà marzo. Come al solito non sto sul pezzo, piuttosto li perdo i pezzi. Questi due piccoli album li ho scoperti solo in estate. Per caso. Girovagando su Bandcamp. E me li sono gustati in cuffia, sotto l’ombrellone, mentre vedevo scivolare passivamente ciabatte e piedi nudi sulla passerella in cemento che porta al mare.

Mi sento anche un po’ in colpa perché entrambi gli album sono stati scelta del mese nel boxino “Indie” di Arturo Compagnoni su Rumore. Una mia lettura fissa, per fiducia nei confronti di Arturo e pure perché siamo dirimpettai. Ma, come dicevo, sto perdendo colpi. Sarà la pandemia, la galoppante miopia, l’aver deviato sovente dalla sharia (leggasi retta via). Sia quel che sia, questi album qui sono stati proprio una gran bella compagnia.

Un viaggio onirico quello del combo di Glasgow tra sperimentazione, post punk, indie kraut morbido e ipnotico. Orange Juice e This Heat. Ok. Ma anche Sugarcubes, almeno nella mia testa. Degli Sugarcubes saggi e pacificati che si riformano 30 anni dopo per andare in tour sulla luna. Un piccolo miracolo l’arrivo della chitarrista, cantante e clarinettista Georgia Harris mentre la band stava scrivendo Zöe. Come sono miracolosi il basso rotondo di Fences, i sintetizzatori siderali e i droni di Outta Space e Power Cut, le voci piene di grazia che riempiono Infinity Winner, la sezione ritmica pulsante di Romantic Mud e della title track. Inedite delicatezze arty per le mie orecchie foderate d’amianto. Ma al cospetto di un’eleganza così minimalista e misurata è facile capitolare.

Altra storia quella dei Wurld Series di Luke Towart che una decina d’anni fa ha piantato baracca e burattini e dal natio Lancashire si è trasferito a Christchurch, Nuova Zelanda. Uno più uno di solito fa due. In questo caso il lirismo folky britannico si è compenetrato con il suono sghembo di marca Flying Nun. In mezzo il meglio dell’indie rock dinoccolato ma non troppo degli anni ’90: dai sempreverdi Pavement ai Superchunk, passando per i Weezer in rotta sulle Hawaii nel fulmineo chitarrismo di neanche un minuto e mezzo Grey Man.

È bello perdere pezzi e poi ritrovarli dentro due piccoli dischi. Sì, è proprio bello.