Festival Beat 2016, un racconto di famiglia

L’entusiasmante esperienza del 2015 (di cui ho scritto su rumoremag.com) mi ha convinto a tornare al Festival Beat. Lo scorso anno mi ero sentito in famiglia quindi ‘sta volta ho deciso di tornarci con la mia vera famiglia, Barbara e Martina: una grande moglie e una piccola-grande figlia. Ci portiamo dietro anche il figlioletto adottivo Andare in cascetta per presentarlo in società.

VENERDI 1 LUGLIO

Neanche il tempo di varcare la soglia dell’Hotel Regina che alle 14:00 Martina già freme per andare in piscina. La accontentiamo subito, faccio giusto un salto in camera e m’infilo sotto la doccia ché con 500 Km sul groppone puzzo come un capriolo del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.

Circa tre ore dopo, nuovamente docciato (alla faccia di chi ritiene che i punk siano dei zezzoni), incontro il cattivo maestro e amico Luca Frazzi. È sempre un piacere rivedere le persone che stimo, e tra queste Luca è sul podio. La stima nei suoi confronti accresce ancor più quando mi confessa qual è l’esplosivo lavoro che svolge ora. Insieme intratteniamo gli astanti del Cafè Desiree parlando di rock and roll di carta. Io della raccolta di microracconti Andare in cascetta che ho curato e (auto)prodotto assieme al compagno Maximiliano Bianchi. Lui di Sottoterra, la rock zine che dirige è che di fatto è il secondo lavoro esplosivo di Luca in questo periodo della sua vita.

Manuel Graziani, Luca Frazzi

La presentazione a braccio, estemporanea, va oltre le mie aspettative. Mi rassicura la presenza della delegazione del vero Abruzzo garage-punk composta dagli amici di bagordi e r’n’r Max Garage, Il Sindaco, Fiorindo e i due Davide. Vedo le persone sorridere. E sorrido anch’io sotto i Rayban da sole graduati che mi fanno assumere le sembianze della cieca di Sorrento. Alla fine delle chiacchiere stringo mani a brava gente che si mette una mano sul cuore e l’altra sul portafogli comprando il libretto: la tenera Tiziana, Fabio Avaro, Moreno de Gli Avvoltoi, Tony Borlotti (senza i suoi Flauers), i grandi Bradipos IV e quella che ho ribattezzato la donna cannone, una corpulenta anziana che acquista anche la cassetta allegata dicendomi che è per suo nipote, un musicista serio che suona con De Gregori.

Un paio di aperitivi e arriviamo al Devil’s Den Pub dove i Cut hanno appena finito il loro set che mi dicono essere stato una martellata sulle gengive. Non ho alcun dubbio, ché stiamo parlando di uno dei migliori gruppi r’n’r italiani, devastanti dal vivo. Saluto l’amico Ferruccio e mi scuso per non esser riuscito a passare prima.

Dopo poco siamo nell’area concerti di Ponte Ghiara assieme a Marco Turci (The Chronics, Monogawa Dj Crew, ecc.) e alla sua splendida famiglia. Con i braccialetti gialli stretti al polso saltiamo la fila per la gioia gonfia di orgoglio dei nostri figli illusi di avere dei padri che contano. In realtà, non me ne voglia Marco, entrambi contiamo come il due di coppe quando comanda bastoni.

Io e mia figlia Martina ci mangiamo un hot dog vegano. Ci piace. Ci abbracciamo. Ridiamo. Nel frattempo sale sul palco Rolando Bruno che esteticamente è un incrocio tra Ramón Díaz e Calcutta. L’argentino è proprio “un simpatico pazzoide” come dice il libretto del Festival. Indossa un gran bella camicia e imbraccia una ancor più bella chitarra. Ci dà di fuzz, garage, cumbia, tropicalismo, simpatia e un pizzico di rabbia.

Los Retrovisores, foto di Serena Groppelli
Los Retrovisores, foto di Serena Groppelli

Poi tocca agli spagnoli Los Retrovisores, un’allegra banda con tanto di sezione fiati calata dalla testa ai piedi nei Sixties del beat e del r&b più ballerino. Sono dichiaratamente i figli illegittimi di Emilio Baldoví Menéndez, meglio noto come Bruno Lomas, il che in tutta sincerità non mi fa né caldo né freddo. Durante il loro frizzante concerto, agevolato dalla presenza al mixer di Mike Mariconda, mia figlia raggiunge il gazebo dei bimbi dove colora e fa dei lavoretti artigianali. Io e Barbara andiamo sotto il palco e battiamo il piedino a ritmo. La mia signora ha su una tutina a righe che fa pendant con le magliette da marinai Bretoni indossate dagli spagnoli. Il set è gradevole, i ragazzi sono bravi, ci stanno dentro. Sul finire del live, Martina ci raggiunge trotterellando. Con dei bicchieri di carta riciclati, degli stecchini e dei semi ha costruito due maracas. Me le agita sotto il naso tutta contenta. La bacio e le do la buonanotte. Le mie donne se ne tornano in hotel e mi lasciano solo per i due ultimi attesissimi concerti.

L’impatto degli Strollers è ottimo. Di che se ne possa pensare non sono un grande amante del garage canonico, il Farfisa alla lunga mi rompe la minchia, tuttavia devo ammettere che per un attimo torno indietro di 15 anni e rivivo la magia di Falling Right Down! e Captain Of My Ship. Nei primi due-tre pezzi gli svedesi spaccano il culo ai passeri, ma poi si perdono. Ad essere impietosi direi che partono a razzo e finiscono a cazzo. Invero non è proprio così, buttano via la parte centrale e “sbagliano” scaletta. Il problema non è tecnico ma tattico. La pensa più o meno come me anche Claudio Sorge col quale scambio quattro chiacchiere proprio mentre i vecchi ragazzi di Örebro calcano le tavole di Ponte Ghiara. Qui tocca aprire una piccola parentesi: Claudio sarà sempre il “mio direttore”. È stato un piacere conoscerlo di persona visto che, incredibilmente, non ci eravamo mai incontrati prima. Che dire… magie del Festival Beat.

Siamo al gran finale. Gli Allah-Las entrano in scena alla chetichella, quasi in punta di piedi. La loro non è insicurezza ma tranquillità. Sono polleggiatissimi, come direbbero a San Giovanni in Persiceto. Uno stato che mantengono per tutto il concerto e che trasferiscono al pubblico. Almeno io lo percepisco così e mi fa stare bene. Al netto dei rimandi ai Love e a quel mondo lì, il Sixties sound sabbioso dei cinque losangelini è attuale come pochi nella sua perfetta linearità. Roba da tramonto autunnale in spiaggia, seduti sulla sabbia umida a viaggiare con la mente. Quando nel 2012 uscì il primo album omonimo non li compresi sino in fondo. Con Worship The Sun di due anni dopo mi hanno rapito. Stasera mi hanno definitivamente fatto prigioniero. Il cantante e chitarrista ritmico Miles Michaud è la serenità fatta persona, mi piace la sua voce e ha un carisma serafico. Il bassista Spencer Dunham è un tutt’uno col suo Mustang. Il batterista Matthew Correia nel bis infila le maracas e si piazza di fronte al microfono chiudendo in scioltezza il set che mi gusto sino in fondo prima di andare a dormire contento e oltremodo rilassato.

Allah-Las, foto di Serena Groppelli
Allah-Las, foto di Serena Groppelli

SABATO 2 LUGLIO

Scendiamo in strada alla buon’ora agghindati come una famigliola friulana il primo giorno di ferie sulla riviera romagnola. Ci manca solo il materassino gonfiabile della Nivea a forma di saponetta. L’unica differenza sta nell’abbronzatura, d’altronde noi siamo gente di mare che se ne va dove gli pare. Poco dopo le 9:00 arriviamo alla Piscina Leoni e tocca aspettare per buttarci in acqua perché i bagnini non sono ancora al lavoro. Prendiamo sole. Tanto sole. Troppo sole. Ad un certo punto, stordito dalla canicola, mi ritrovo a mollo nella piscinetta dei bambini con Ferruccio dei Cut e Mass dei Female Troubles. La presenza al Festival di Kid Congo Powers ci fa discorrere amabilmente di Cramps, Gun Club e compagnia rantolante, nonostante il principio d’insolazione.

Pranziamo sotto l’ombrellone. Per lasciare ombra alle mie donne, la parte destra della mia zona dorsale rimane alla mercé di Helios. Il dio del sole si accanisce. Me ne accorgo quando rientriamo in hotel attorno alle 17:00. Dallo specchio vedo riflessa una striatura incandescente, praticamente il lampo rosso e blu di Aladdin Sane trapiantato sulla mia schiena.

Giretto in città e spritz defaticante sono d’obbligo in attesa della partita degli Europei Italia-Germania che decidiamo di seguire al Festival. Nel bel mezzo dell’aperitivo vedo Giuliano e Luna della libreria-negozio di dischi Polarville di L’Aquila che inforcano delle belle biciclette color crema: loro due ci hanno capito tutto della vita. Rientrati in hotel prendiamo l’ascensore assieme a Lutz Raeuber della Soundflat. Per rompere il ghiaccio biascico in inglese maccheronico qualcosa sull’imminente match. Lutz mi risponde una cosa tipo “se vinciamo ok, altrimenti siamo felici lo stesso… siamo al Festival Beat!”

La partita sta per iniziare. Come entriamo nell’area festival allungo una copia di Andare in cascetta al patron Gianni Fuso Nerini, che ringrazio per l’ospitalità, e punto il furgoncino vegano dove c’è già una discreta fila. Barbara e Martina vanno a prendere posto vicino al maxischermo.

Elli De Mon, foto di Serena Groppelli
Elli De Mon, foto di Serena Groppelli

È una serata strana, per ovvie ragioni. C’è chi non si schioda dalla partita e chi come me, invece, fa spasmodicamente avanti e indietro tra il palco e il maxischermo. Mia figlia rimane ipnotizzata da Elli De Mon e dal suo gambaletto a sonagli. Guadagna la transenna, ci si piazza sopra e si gusta il breve concerto di una delle migliori one woman band europee. Elisa conferma dal vivo ciò che ho apprezzato nei suoi dischi e ancora prima in quelli delle Almandino Quite DeLuxe. La preferisco quando lambisce le rive del Mississippi piuttosto che quando va in pellegrinaggio sul Gange, ma sono gusti.

I Sick Rose  salgono con una carica spaventosa. Alla fine del primo pezzo l’atletico Luca Re è già tra la gente sotto il palco. Spiace davvero per la concomitanza con la partita perché i torinesi sono a mille e chi è inchiodato di fronte allo schermo si sta perdendo un gran concerto. Stasera stanno celebrando al meglio il trentennale di Faces, il loro esordio da poco ristampato in una bella edizione in vinile che faccio mia all’istante. L’attitudine della Rosa Malata è da incorniciare, il suono è “voluminoso” da grande band quale sono. Come mi fa notare Max Garage, Luca Re ha una voce migliore di quando era giovane e capellone. Mia figlia non ce la fa più per la stanchezza. D’altronde ha solo 7 anni, ascolta i Big Time Rush e ha già resistito abbastanza. Prima di lasciarle andare dico a mia moglie che quei tipi sul palco sono gli autori di Barbara: 10 anni fa ho piazzato nella home page di questo blog i versi “Barbara / Don’t tell me not to fall in love / No matter what you do or say / I’m gonna love you anyway”. Barbara mi bacia. E ci mancherebbe altro.

The Sick Rose, foto di Serena Groppelli
The Sick Rose, foto di Serena Groppelli

La partita va per le lunghe e io continuo a fare su e giù dal palco al maxischermo. Prima che Kid Congo and The Pink Monkey Birds attacchino a suonare passo al banchetto di Sottoterra. Saluto il megadirettore e Joe Fuzz, rivedo Luca Orzi e Sara, scambio due chiacchiere con Lorenzo Belli Capelli. Su Kid Congo è doverosa una premessa: nell’estate del 1990 mi stesero una compilation che conteneva La Historia De Un Amour, pezzo tratto da un EP che penso sia la sua prima uscita solista. Il tipo che mi fece la cassetta aggiunse che Kid era stato il chitarrista dei Gun Club e dei Cramps e che da un po’ stava suonando con Nick Cave. Questo per dire che Brian Tristan (questo il suo vero nome) lo considero un po’ come uno di famiglia.

Il 57enne è elegantissimo nel suo completo a righe avana con tanto di copricapo da Giovani Marmotte. Che sia in serata lo si capisce da come si muove e dalle pillole d’amore che dispensa al pubblico. Purtroppo me lo vedo a spizzichi e bocconi per via dei tempi supplementari e dei rigori. Ma quello a cui assisto è SPETTACOLARE. Il miglior concerto del Festival. Il gruppo è una macchina da guerra con un batterista mostruoso. Kid un entertainer di primissimo livello. Partito dalla spiaggia di Venice Beach e transitato dai cessi luridi del CBGB, oggi è un sardonico soul man delle catacombe, il punto di congiunzione tra Screamin’ Jay Hawkins e Jonathan Richman. E non saprei formulare complimento migliore. Chiude con una versione nostalgica di Sex Beat che mi fa venire brividi pesanti. Guardandomi attorno noto di non essere il solo.

Kid Congo and The Pink Monkey Birds, foto di Serena Groppelli
Kid Congo and The Pink Monkey Birds, foto di Serena Groppelli

I rigori ci puniscono e così la massa pallonara, di cui sono parte, si riversa ammutolita sotto il palco. I Nomads non fanno nulla per tirarci su il morale, spiace davvero dirlo. I vecchi eroi del garage rock scandinavo, in sella da 35 anni tondi tondi, stasera sono spompati. Mi impegno a farmi piacere il set, ma non ce la faccio a mentire a me stesso e dopo 4-5 pezzi mollo l’osso. Ne approfitto per dare un’occhiata tra i banchetti di vinile. Le cose più interessanti a prezzi migliori si trovano da Area Pirata. Mi fermo a chiacchierare con Jacopo e Tiziano, i boss dell’etichetta, da cui scrocco per me e Ferruccio/Cut un passaggio in hotel. Prima di andar via incrocio Fausto e Piera, ovvero Jungle e She Hellcat dei Killer Klown, che stanno di fretta. Scambiamo 2-parole-2, giusto il tempo di dire a Fausto che col supergruppo Lucyfer Sam hanno tirato giù un album della madonna, guarda caso con su impresso il logo di Area Pirata.

PS: è stato un gran bel week-end. Durante il viaggio di ritorno Barbara e Martina mi hanno detto che si sono divertite assai e che il prossimo anno vogliono tornare. “Magari una settimana intera” ha aggiunto mia figlia, “così andiamo alle terme e in piscina tutti i giorni”.

Amo le mie donne. E amo anche il Festival Beat.

Le bellissime foto dei gruppi che vedete sono di Serena Groppelli (dalla pagina Facebook del Festival Beat)

La erre “uvulare” del nastro segreto

THE SECRET TAPE
The Secret Tape EP
(Area Pirata/White Zoo)

cover_TheSecretTapeAppuro da Luca Frazzi che i Secret Tape vengono dalle sue parti, da Fornovo Taro in provincia di Parma. E lassù, a parte la erre “uvulare”, hanno dimestichezza anche con la erre di r’n’r. Mi colpisce soprattutto questo passaggio di Luca su Rumore di novembre: “Non tutti imbracciano le chitarre con l’obiettivo di suonare al Primo Maggio in piazza San Giovanni a Roma. C’è anche chi suona perché sa che il rock è nato per spaventare i genitori.
Cos’altro aggiungere?
Ricordo l’album dei Secret Tape di qualche anno fa, mi è rimasta impressa la foto di copertina con questo mano che tira fuori una musicassetta dal taschino della camicia. Ma non li avevo mai ascoltati prima. Recupero oggi, complice la recensione di Luca e l’ottima accoppiata Area Pirata + White Zoo Records che ha prodotto l’omonimo EP 7” di 4 pezzi: le 30 copie con copertina differente sono andate subito esaurite, sono ancora disponibili quelle regolari in vinile bianco e mini CD allegato che contiene due brani in più, e comunque l’EP è scaricabile gratuitamente sulla pagina Bandcamp della band.

TheSecretTape3vinyls

In effetti il dischetto è una piccola bomba. L’attitudine dei Secret Tapes mi fa pensare agli Orwells o, per rimanere in Italia, ai veneti Dancers. Nei loro pezzi c’è della gran freschezza e la giusta proporzione tra melodia albionica e lo sfasciume a stelle e strisce. Non a caso le note stampa citano Ty Segall da una parte e i Libertines dall’altra che mi paiono riferimenti azzeccati (invero più il secondo del primo). Io ci aggiungerei anche gli Hives di cui oggi sembra non si ricordi nessuno: ascoltate I Got You e ditemi.
I pezzi che preferisco sono Blow, una bella ballata roots-rook spruzzata di modernità, e Paul’s Got The Beat, presente solo nel cd allegato, che ha un ritornello davvero “catchy” come dicono gli americani. L’unico appunto che mi sento di muovere è la scelta di mettere in evidenza la voce, anche perché in alcuni passaggi (penso ad Almighty) ricorda troppo quella di Liam “sbruffoncello” Gallagher.
Ciò detto ai ragazzi emiliani bisogna solo fare un plauso perché incarnano molto bene la nuova ondata garage-rock. È gente che bada poco alle mode (o le mischia), che non ha etichetta (o ne ha diverse), che non si prende troppo sul serio e non si fa alcun problema a svicolare nei territori indie-rock e imprimere accelerazioni di punk melodico. Gente a cui frega zero, insomma.

Nessuna pausa a Teramo r’n’r city

WIDE HIPS 69
Menopause
(Area Pirata)

WideHips69_Menopause State per leggere una recensione di parte. Le Wide Hips 69 sono di Teramo come me, siamo amici e negli ultimi tempi ci siamo visti con una certa regolarità per organizzare dei concerti di r’n’r marcio, sporco ma per niente imbecille. Quindi se siete dei piccoli fans della deontologia vi invito a sgrizzare subito via. Wide Hips 69 sono tre donne e un uomo ma, non me ne voglia Luciano (il mio batterista preferito di sempre, e non esagero) può essere considerata a tutti gli effetti una female band. La migliore female garage r’n’r band italiana. E spero di riuscire a spiegarvi il perché nelle poche righe che seguono.
Donne, si diceva, non ragazze. E la chiave sta proprio qui. Una band formata da gente con gusto, attitudine, una montagna di ascolti alle spalle, il disincanto e direi anche la maturità che arrivano solo ad una certa. La voce di Cristina, potente e selvaggia, è alla stregua di uno strumento. La chitarra di Lorena indica la strada come un gps di ultima generazione. La sezione ritmica di Daniela e Luciano tracciano il percorso facendo pozze per terra, immaginate una motoruspa guidata da James Hunt e non sarete molto lontani da quello che intendo.
L’insieme di questi ingredienti fa di Menopause un gran bel disco perché gli ingredienti, appunto, sono cucinati da cuochi col manico che pensano solo a suonare, facendosi una manica di cazzi propri come dovrebbe sempre essere. Inoltre l’album, registrato live in studio e missato dalle sapienti mani di Rosario Memoli (The Wild Week-End e The Provincials), è stato dato alle stampe dalla gagliarda Area Pirata che in Italia, e non solo, è sinonimo di qualità per certe sonorità.

foto_WideHips69

Nel primo pezzo Cristina imita un’oca giuliva e sembra quasi faccia il verso a una olgettina, non a caso il titolo scelto è Stupid Bitch. Subito dopo arriva Blind Woman e si passa dal giorno alla notte (o forse sarebbe più corretto il contrario), al punk prima del punk, venendo catapultati nel bel mezzo di una sassaiola nei sobborghi di Detroit sul finire degli anni ’60 con contusi gravi rimasti agonizzanti sul campo di battaglia.
Gran botta anche la tripletta successiva aperta dall’hard-garage spezzettato Doom and Gloom, che ha un finalino “vocale” niente male, dal manifesto Live Fat Die Drunk con quel bel passo hardcore, per chiudere con la rovesciata plastica I Needed You (scitta da Gaetano dei Wild Week-End) in cui la voce imperiosa di Cristina tocca i livelli di Lisa Kekaula dei Bellrays via Tina Lucchesi periodo Trashwomen. E ho detto tutto.
Da citare pure Beer, Pussy and Tea, non fosse altro per il titolo così delicato e per quell’1-2-6-9 freakantoniano in apertura che anticipa un rullo compressore grezzo e feroce di garage-punk non molto lontano da Eptadone. E ancora il punk dritto per dritto Under The Train il cui sottotitolo “allegory about drugs addiction” non lascia spazio ad interpretazioni.
Per il loro primo album (ufficiale) le Wide Hips 69 hanno pensato bene di fare anche un videoclip come si deve, affidando la regia al comune amico Josh Heisenberg. Il protagonista, Massimo Ciampani, è il cantante della band dark wave Christine Plays Viola: altro caro amico, nonché mio collega di lavoro. Ogni mattina facciamo la pausa caffè assieme parlando di cazzate e rock and roll, cose che spesso coincidono. Io mi prendo un espresso e mi fumo un paio di sigarette una dietro l’altra, lui un caffè al ginseng senza zucchero. Per la cronaca.

L’amichevole recensione che avete appena letto è stata pubblicata qualche giorno fa su BLACK MILK, la più ganza et gonza webzine r’n’r diy italiana.

Support your local scene

È cosa buona e giusta sostenere la scena musicale locale?
Sì, ma non sempre. E mi spiego meglio.
Tutti noi, chi più chi meno, ci riempiamo la bocca con questa orrenda parola che è “meritocrazia”. Ma poi, magicamente, ce ne dimentichiamo quando si tratta di nostri compaesani che imbracciano uno strumento musicale e suonano qualcosa di vagamente somigliante al rock.
Tutti noi, chi più chi meno, siamo dei Meat Puppets. E non mi riferisco ai fratelli Kirkwood, bontà loro.
Pertanto io non mi sento di sostenere proprio un bel niente solo perché, chessò, con il batterista tal dei tali ci incontriamo dal pizzicagnolo sotto casa, al bassista X mi lega una parentela di terzo grado, il figlio del chitarrista Y va in classe con mia figlia o il fratello del cugino della cognata del prozio di mia moglie canta in una band che ha in scaletta una mezza cover di That Girl dei Mummies. “A me checcazzo me ne frega a me”, citando il prode Maccio Capatonda.

WideHips69_LOFFICINA

Chiarito ciò questo week-end mi vado a vedere con piacere due bei concertini locali, di gente che stimo come musicisti al di là del legame amicale che mi lega loro. Entrambi i concerti, peraltro, si tengono a L’Officina a cui sono legato per diversi motivi: in tutta onestà non è secondario il fatto che il locale mi stia dietro casa.

Si inizia venerdì 31 ottobre con il concerto di presentazione di MenoPause, primo album ufficiale delle WIDE HIPS 69 sulla benemerita Area Pirata Records. Nell’occasione sarà anche proiettato in anteprima il videoclip di Bipolar Disorder per la regia di Josh Heisenberg che è un altro di quelli bravi assai: due piccioni con una fava. Su questa eccellente party band garage’n’roll mi sono espresso più volte e non voglio ripetermi. Daniela, Lorena, Cristina e Luciano sono dei grandi; e non solo per via dell’età.

Il giorno dopo, sabato 1 novembre, è la volta dell’esordio live di THE DEAD MAN SINGING, il progetto che Paolo Marini ha messo su per omaggiare i suoi eroi canterini passati a miglior vita. Paolo è un caro amico, l’avrò visto dal vivo un centinaio di volte (una metà di queste eravamo sul palco assieme con gli Amelie Tritesse) e devo dire che uno dei concerti migliori fra tutte le sue incarnazioni musicali l’ho visto proprio quando era da solo, a San Benedetto del Tronto. Quindi sono molto curioso, nonché fiducioso.

Se ci siete ci vediamo a L’Officina. Mi trovate nelle adiacenze del palco o del bar.

TheDeadManSinging_LOFFICINA

To Be(at) or not to Be(at)

I MITOMANI BEAT
Fuori dal tempo
(Area Pirata/Green Cookie)

I Mitomani Beat - Fuori dal tempoNon mi sono mai piaciute le uniformi. Preferisco il cut-up sottoculturale del primo, ingenuo punk. Sui suoni, poi, non ne parliamo. Sono nato con fIREHOSE, Dinosaur Jr e quella roba lì, che uno non sapeva bene che musica fosse perché trattavasi di mischione bastardo (ed estremamente originale) di più generi per così dire “afferenti al rock alternativo”, e pure guardandoli in foto non capivi un emerito cazzo. Ti spiazzavano su tutta la linea, insomma.
Per quanto appena detto non dovrei apprezzare un gruppo didascalico come questo. E invece alla fine dico To Be(at) con tutta la voce che ho, non per niente al mio matrimonio ho chiamato a suonare Tony Borlotti e i suoi Flauers.
De I Mitomani Beat, complesso romano all’esordio lungo ma non di primo pelo, apprezzo intanto la sincerità. La ragione sociale e il titolo dell’album suonano come un atto di fede, una dichiarazione di imperituro amore, quasi un’ammissione di colpa che commuove. E poi sono indubbiamente divertenti: una perfetta party band da gustarsi dal vivo ingurgitando alcolici senza soluzione di continuità come alpini in licenza premio.
Il disco parte a razzo con Suono Beat che termina con la presentazione degli strumenti della frontwoman Eve LaBlonde, una perfetta ragazza yéyé, il giusto Capricciosa come l’omonimo pezzo che viene subito dopo. Non male Shake che puoi quasi sentire l’odore di borotalco da passare sotto le suole dei mocassini per scivolare in pista come un drago. Altri pezzi interessanti sono Baciami Stupido, che nel ritornello mi ricorda le atmosfere degli Statuto, il garage-beat leggero Bacio solo te degno de Gli Avvoltoi e la vianelliana, estivissima Baciami stupido.
Sinceramente potevano evitare le cover super abusate di Arriva la bomba e Batman/Beatman che dal vivo ci stanno tutte ma su disco puzzano di riempitivi.
Dell’album in questione ho letto le recensioni di due giornalisti che stimo. Luca Frazzi su Rumore gli ha appioppato un 6, Fabio Polvani su Blow Up addirittura un 8. Sono più dalla parte di Frazzi, tuttavia faccio una bella media democristiana e mi attesto sul 7. Un disco leggero e piacevole della serie “come (ri)suona il beat ai tempi della crisi”. Non a caso l’album è frutto di una co-produzione Italia-Grecia.

Un paio di giorni fa la recensione è stata pubblicata (anche) sulla meglio webzine r’n’r italiana che risponde al nome di BLACK MILK.