Il modo giusto di attraversare una terra desolata

THE STRANGE FLOWERS – Crossing A Wasteland (Onde Italiane-Rubber Soul/Area Pirata)

Sono in giro da 35 anni, hanno pubblicato una decina di album, nel 2017 è uscita persino una bella compilation su doppio cd per festeggiare il trentesimo anniversario della band. Eppure gli Strange Flowers sono uno tra i gruppi più sottovalutati del rock tricolore. E questa cosa qui è oggettivamente incomprensibile. Troppo psichedelici per gli amanti del garage duro e puro e troppo poco per i flippati dei viaggi cosmici?

Non saprei. So solo che il prof. Michele Marinò (cantante, chitarrista e songwriter principale) e compagni, più che strani sono dei fiori rari e preziosi. Non è facile attraversare una terra desolata, dipende molto da chi ti accompagna. Ecco, questi vecchi ragazzi sono i migliori compagni di viaggio si possa immaginare. Perché infondono sicurezza. E coraggio.

Le righe che seguono non vogliono essere una recensione canonica, quindi inizio col dire che io sono abruzzese (fieramente abruzzese). E da abruzzese A Transient Landing, con quel piano che gioca di sottrazione e le linee vocali appoggiate sulle nuvole, mi fa pensare al vento placido ma implacabile che spettina le cime del Gran Sasso. Subito dopo arriva Dressed In Light And Tears: le chitarre minacciose e il parlato femminile intubato di Sarah Scacchi Gracco mi inducono a trattenere il fiato come se fossi intrappolato in un sottotetto buio di New York. Take Me Away e la sua melodia puntellata dal basso ha il sapore dei sogni infranti sugli scogli e in un attimo eccomi lì, di nuovo a casa, sulle rive dell’adriatico a fissare l’infinito orizzonte del mare autunnale.

Sogni, suggestioni, ricordi, viaggi reali e immaginari si mischiano accavallandosi tra melodie limpide e suoni stratificati dentro questo piccolo-grande disco di psichedelia popolare.

Il disco giusto per attraversare una terra desolata. La terra che calpestiamo tutti i giorni.

Ferro (non è) Solo

FERRO SOLO
Almost Mine: The Unexpected Rise and Sudden Demise of Fernando
(Riff/Fernando/Area Pirata/Deambula)

L’improvvisa scomparsa di Fernando è un concept r’n’r che, come quei libri antichi di un certo valore (affettivo e non solo), vanno tenuti in bella mostra nella credenza buona per vantarsene con i conoscenti. Più che azzeccato, quindi, l’artwork di copertina in stile Adelphi che mi fa pensare un po’ al mondo antico di Sir Billy Childish.

A differenza dell’amico Luca Calcagno che ha scritto: “Ferro Solo sembra il nome di un rapper di infimo valore e ciò rappresenta l’unico neo di un disco bellissimo”, mi piace anche il monicker che Ferruccio Quercetti dei Cut si è scelto per il suo progetto in solitaria. Mi piace perché cela qualcosa di molto più intimo e profondo di quanto l’evidente gioco di parole possa far pensare. Che poi Ferro è Solo per modo di dire, circondato com’è da amici di vecchia data, tra membri di Jule’s Haircut (Luca Giovanardi e Andrea Rovacchi), Three Second Kiss (Sergio Carlini), Chow (Riccardo Frabetti) e i Giuda al completo nella bombetta superglam He Spies.

L’album è di una varietà sorprendente. Un consuntivo brillante. Perché quando in musica tiri le somme queste sono inevitabilmente il risultato dei tuoi ascolti. E Ferruccio ha vissuto, vive e scommetto vivrà fino alla fine dei suoi giorni con la musica e per la musica: la nostra piccola-grande musica.

Acceca l’arcobaleno di suoni e umori dispiegato da Ferro e sodali che passano con naturalezza, verace passione – e direi gran manico – dalla cupezza suicideiana di Got Me A Job a ballate pianistiche da caminetto acceso come Perfect Stranger e Gala. Oppure, in un amen, dalla New York di Lou Reed all’Inghilterra autunnale di Lloyd Cole in This Daddy’s Girl e Almost Mine. Glielo detto anche di persona a Ferruccio che a me ricorda molto Billy Bragg ed è bello, chiudere gli occhi mentre va Doppelgänger … chiudere gli occhi e fantasticare che Stephen William Bragg stia rintanato in un’umida sala prove di Belfast a sudare assieme agli Stiff Little Fingers.

Otto tondo tondo e album che va dritto come una spada nella cinquina dei dischi italiani dell’anno.

Quella stella blu che fa cucù

ALEX LOGGIA
Bluestar
(Area Pirata)

Non mi sono mai piaciuti gli Style Council. Mike Talbot c’aveva la faccia del salumiere sotto casa e Paul Weller lo vedevo come un traditore imborghesitosi male. Per anni ho schifato la copia in vinile gatefold di Our Favourite Shop che un bel giorno trovai in mezzo alla mia collezione, comprata da mio fratello chissà dove e chissà perché. La stessa copia, praticamente nuova, che in questa tiepida giornata di fine estate sta girando sul mio piatto mentre fumo e scrivo. E non mi sta dispiacendo.

Ecco. Bluestar mi fa pensare agli Style Council, ma con più chitarre e i Sixties tatuati dietro la schiena. Sto parlando di un album che scalda e rinfresca allo stesso tempo. Un album definitivo (per l’autore), il tipico album dove ti lasci andare e metti in fila le passioni di una vita, tutti i tasselli di una carriera, bussando ai generi musicali che ti hanno fatto battere il cuore fin da ragazzo.

La immagino così la genesi del debutto solista dello storico chitarrista degli Statuto, produttore e molto altro. Alex Loggia infila quattordici pezzi di pop soul, beat, funk, rock blues, r&b e rocksteady il cui comun denominatore è l’eleganza, in fase di composizione e di arrangiamento.

A vestire le canzoni assieme a lui una banda di sarti dalle mani esperte: il pard mod Oskar Giammarimaro, Madaski degli Africa Unite, il sommo Tony Face, Andy Macfarlane di Hormonauts e Rock’n’Roll Kamikaze, diversa gente che ha cucito musiche con Bluebeaters, gli stessi Statuto, Four by Art, Blind Alley, ma anche con Finardi e De Gregori.

L’unico difetto di Bluestar è quello di esser tardivo: poteva e doveva uscire prima. Un vinile da tenere con cura, magari a fianco di quelli degli Style Council che ora non schifo più. Perché, per quanto si possa resistere, sta scivolando via la gioventù.

HO (RI)VISTO IL SOUL

FOUR BY ART
Inner Sounds
(Area Pirata/Art Records)

C’ho messo troppo tempo prima di decidermi a scrivere queste righe. E me ne dispiaccio. Perché il ritorno di uno dei gruppi chiave del mod revival tra fine anni ‘70 e primi ‘80 non tradisce le aspettative: al contrario le supera, anzi le travolge. E lo dico stupendomi di me stesso, ché col passare del tempo mi emoziono sempre meno e quasi esclusivamente quando si tratta di esordi traballanti.

C’è poco da fare, Inner Sounds dei Four By Art è un album che non riesco a togliere dal lettore, che ho consumato in senso letterale, ascoltandolo un tot in cuffia al lavoro negli ultimi mesi. Un album centrato sotto il profilo musicale e significativo per tanti aspetti: non fosse altro perché fortemente voluto dal bassista (e cantante) Filippo Boniello, l’unico membro originario della band dopo la scomparsa del chitarrista Elvis Galimberti e del batterista Demetrio Candeloro alla cui memoria è dedicato. Filippo Boniello ha impiegato tre anni a scrivere, registrare, mixare e produrre l’album, che segue di oltre trent’anni l’ultima uscita discografica dei Four By Art, rinverdendo i fasti di quello che una volta veniva chiamato neo-sixties italiano.

Allora mi ricordo, cover dei New Trolls e unico pezzo cantato in italiano, ha un groove micidiale. Una cazzo di bomba Blaxploitation come potevano concepirla degli Inspiral Carpets ai tempi folli di Madchester con Bez degli Happy Mondays strafatto e carico a molla in pista. Altrettanto riuscita la cover di Sorry, pezzo del ’66 degli australiani Easybeats di cui forse è più nota la versione anni ’80 dei losangelini The Three O’Clock. Quei The Three O’Clock di Michael Quercio che una sera, vedendo l’amica Lina Sedillo improvvisare uno spoken word con addosso un bel vestitino rosso a motivi paisley, pronunciò la frase: “Words from the paisley underground”. La stessa frase che ripetè poco dopo in un’intervista rilasciata al LA Weekly parlando della musica del suo gruppo e di band affini come Bangles e Rain Parade, battezzando di fatto un nuovo genere che tutti conosciamo (e apprezziamo).

Tornando a noi, o meglio ai Four By Art, ci tengo a sottolineare solo due cose: 1) il gran lavoro alle chitarre del marchigiano Storteaux che sovente pigia l’acceleratore; 2) la scrittura davvero ispirata che si traduce in un pugno di canzoni illuminate dal soul. Ecco, le canzoni… quelle strane cose sulle quali non si fa più molta attenzione. Inner Sounds ne infila una migliore dell’altra, dalla più garagera (ma comunque gonfia di melodia e falsetto) I Ask You ai carrarmati r’n’r/r&b At Your Door e Home, passando per la screamadelica The Loop, la morbida psichedelia orchestrata di Take Your Time e il grooveosissimo soul lounge di Sea Side Superstar.

Non sto facendo coming out, ché nella musica mi piace da matti ancora la follia come a B****sconi piace da matti quell’altra cosa che inizia sempre per F e termina sempre con A. È che questo disco nobilita l’idea, ahinoi oggi sorpassata, di album. Un album scritto bene e suonato ancora meglio.

Casa dei miei, una telefonata, i Temporal Sluts

Avevo passato una grande estate. Un’estate di Cazzaniga e di bagordi seri che non mi davano il tempo di pensare al futuro… futuro che a quel tempo mi illudevo potesse sorridere a quelli come noi, citando una canzone dei Diaframma che sarebbe uscita di lì a qualche anno. Dopo l’estate con il cervello a folle del 1998, ero tornato a vivere a casa dei miei. Nella casa dove ero nato. Il 30 ottobre avrei compiuto 26 anni.

Un bel pomeriggio alzo la cornetta del telefono fisso, digito il prefisso 06 e chiamo la Hate Records. Mi risponde Pierluigi Bella. È gentile e serio, qualità che apprezzo in egual misura negli esseri umani. Gli ordino due produzioni della sua etichetta: il 33 giri appena dato alle stampe della compilation First Italian Punk Contest e il 10” A Touching Date che vede su un lato gli italiani Temporal Sluts, sull’altro i californiani The Humpers di cui ho già i 7” Space Station Love e Sarcasmatron.

Quei dischi li consumo, letteralmente. La compilation mi fa andare fuori di testa soprattutto per Bingo, Thee S.T.P., Two Bo’s Maniacs, Temporal Sluts e per la meteora giocosa Punk al Muro di cui canticchio senza sosta l’inno situazionista-fancazzista O’ Cafè. Ne scrivo su un free press della mia città. E quella sarà la prima recensione della mia vita.
Quei dischi mi (ri)aprono un mondo. Sto parlando del garage punk lo-fi spinto allora dalla fondamentale rivista rumorosa diretta da Luca Frazzi, Bassa Fedeltà, e da una manciata di zine tra cui l’altrettanto fondamentale Hate del già citato Pierluigi e della sua compagna Chicca.

Pierluigi e Chicca Hate Records - Mick Collins - Two Bo's Maniacs

I Temporal Sluts non mi escono più dalla testa. A spizzichi e bocconi i comaschi continuano a incidere 7”, split, EP, senza mai dare alle stampe un album vero e proprio. In realtà un mezzo album lo avevano pubblicato nel 1996, agli esordi, il 10” Bad News Never Come Alone che contiene 7 pezzi tra cui l’inno Mafia Boys. Il vinile non l’avevo mai ascoltato fino ad un paio d’anni fa quando mi è stato gentilmente regalato dall’ex chitarrista del gruppo Marco Perroni/Rufoism, oggi apprezzato pittore nonché chitarrista dei Boozers di Bologna, città nella quale vive e lavora da diversi anni.

Rufoism (Marco Perroni) - Il gioco del pollo, 2008

Da quell’estate del ’98 sono passati 18 anni.
Io mi diverto ancora a scrivere di musica, cosa che faccio regolarmente e se la matematica non è un’opinione sono diventato una scribacchino rock maggiorenne.
Sono tornato a casa dei miei dove ora vivo con due splendide donne.
I miei sono diventati il mio: ovvero mio padre ché la terza splendida donna della mia vita se n’è andata troppo presto, pace all’anima sua.
Qualche mese fa i Temporal Sluts hanno finalmente pubblicato il loro primo, vero album Modern Slavery Protocol su Area Pirata, etichetta che non mi stancherò mai di ringraziare per quello che ha fatto al r’n’r italiano negli ultimi 15 anni e che sta continuando a fare.

Temporal Sluts - Modern Slavery Protocol (2016)

Un disco senza fronzoli. Teso, secco, duro come la pertica della palestra Mazzini dove sgambettavo al liceo, con nessuno dei 10 pezzi che supera i tre minuti, viva dio. Ignoranza e melodia punk’n’roll si fanno lo sgambetto: cadono, si rialzano e poi tornano a correre più veloci di prima. La voce di Rob Slut non perde un colpo, si abbenda e moccica di default. C’è l’imbarazzo della scelta. Fractured Mantra, il rock’n’roll rauco e un po’ lascivo Rum Dark Room, il basso imponente che gonfia di groove il punk terso MSP, il drago a tre teste con le gambe di Usain Bolt Liquid Fever.
Peraltro coi Temporal Sluts ora ci suona la chitarra anche Miguel Basetta, ottimo giornalista musicale che prima di entrare negli stadi batteva i campetti di periferia mostrando già una certa classe. Mi riferisco alla gran bella fanzine Oriental Beat.