DIECI ANNI DI AMELIE TRITESSE

A maggio del 2007 è stato pubblicato il mio romanzo breve La mia band suona il (punk)rock  da Coniglio Editore. Nulla di imperdibile ma pur sempre un libretto distribuito a livello nazionale, che mi fece sentire sulle spalle la responsabilità di portarlo in giro il più possibile. Anche perché non essendo un ragazzino e conoscendo un po’ l’acquitrino nel quale mi accingevo a sbracciare, sapevo benissimo che per piazzarne qualche centinaio di copie avrei dovuto sbattermi non poco.

Però c’era un problema: le classiche presentazioni dei libri mi rompono i coglioni da morire. E intendo quelle in cui l’autore, spesso assiso su sedie di fortuna tra pseudo intellettuali fai da te, si sforza di apparire pensante con la mano sinistra poggiata sul mento in un gesto che starebbe a significare concentrazione e/o attenzione, in realtà più falso di una banconota da 7 euro.

Al che, per movimentare la faccenda, chiesi aiuto agli amici Paolo Marini e Giustino Di Gregorio. Dopo due prove in croce arrivammo a fare il primo, zoppicante reading alla Villa Comunale di Teramo. Era il 4 agosto del 2007. Sul palco con me e Paolo c’era anche l’oriundo Maximiliano Bianchi che ringrazio pubblicamente per avermi supportato nelle varie idee strampalate che gli ho proposto in questi anni.

Qualche mese dopo, esattamente il 19 gennaio 2008, suonammo al GA.Rage di Avellino in una serata indimenticabile per tanti motivi: tra questi l’esordio alla batteria di Stefano Di Gregorio che quella sera è diventato una pedina fondamentale del gruppo ribattezzato Amelie Tritesse. Nome suggestivo e suggestionabile, ne convengo, in realtà si tratta della trascrizione francesizzata della pronuncia dialettale teramana di “me li triterei”.

Da lì in poi le cose hanno preso un’altra piega. Ci siamo progressivamente (e aggiungo fortunatamente) staccati dal mio libretto e dalla modalità reading, fino a diventare un vero e proprio gruppo. Ci è capitato di suonare ovunque, non tantissimo ma ovunque. Dal pavimento del minuscolo circoletto ai palchi dei festival condividendo la strumentazione con Thurston Moore, giusto per fare un nome e tirarmela un po’.

Ridendo e scherzando sono passati 10 anni. Abbiamo fatto dei figli. Ci siamo presi delle pause. Ma non ci siamo mai persi di vista e oggi siamo ancora qui. Con Cristiano che si è unito a me, Paolo e Stefano.

Non sono mai stato bravo nei ringraziamenti perciò ho sempre preferito soprassedere. Oggi faccio una eccezione e butto giù dei nomi (neanche tanto) a caso che hanno orbitato e orbitano ancora attorno a noi: Martina, Enea, Barbara, Emanuela, Massimo Hardrock, Matteo Borgognoni, Fabrizio Pluc Di Nicola, Alessandro Dimas, Gabriele della Goodbye Boozy, i ragazzi de L’Officina, tutti quelli che si sono presi la briga di ascoltare il nostro cd-libro Cazzo ne sapete voi del rock and roll scrivendone, chi in questi anni ci ha seguito e fatto suonare persino più di una volta tipo Francesco de I Dischi del Minollo, Alessio Marianacci, Giulio di Avellino, Giorgio Di Saverio e Lorenzo Pompei, ecc.

Questo piccolo decennale lo festeggeremo entrando in studio per registrare il nostro secondo disco, tra poco più di una settimana, al Noiselab di Sergio Pomante. Magari ci rivediamo in giro dopo l’estate.

Evviva la deriva derivativa!

WINTER BEACH DISCO
After The Fireworks, We’ll Sail
(Black Candy)
cover_WinterBeachDiscoMalgrado il cosiddetto noise non sia da tempo la mia tazza di tè preferita, tre anni orsono rimasi piacevolmente colpito dal mini cd omonimo dei Winter Beach Disco. Il dischetto era impacchettato con una scarnissima copertina a mo’ di 45 giri, in cartone bianco e nero. Dentro poco più di un quarto d’ora di odio puro. Noise, post-punk o vattelappesca cos’altro sull’onda della roba americana targata Amphetamine Reptile, Dischord, Touch & Go. Pochi calcoli e zero pose, solo una gran botta alle coronarie.
Ora i ragazzi viterbesi sono cresciuti, hanno trovato un’interessante label che ha messo mano al portafoglio ed ecco il primo vero album After The Fireworks, We’ll Sail. Dentro ci sono 10 canzoni molto diverse da quelle degli esordi, più composite, arrangiate, ragionate, più alt-rock, ma ciò non è di per sé negativo.
Come succede appena m’arriva un disco, lo metto su per 2-3 giorni prima di capirci qualcosa. Proprio il terzo giorno, dopo un’overdose del full length in questione, mi ritrovo casualmente a cena con un noto rocker alternativo per il quale ho stima (e si spera sia reciproca). Si beve, si chiacchiera, si cazzeggia finché il discorso non scivola sui nuovi dischi italiani di un qualche interesse.
Io, forte del fresco ascolto, butto lì il nome dei Winter Beach Disco.
L’amico Friz si adombra e grugnendo, con un livore che mi pare eccessivo, fa lapidario: «Questo disco fa proprio cacare!»
«Ma dai…», replico sbuffando ironico.
Non c’è verso di fargli cambiare idea. My friend Friz inizia una tiritera esagerata su quanto sia debole il disco e su quanto cazzo siano derivativi ‘sti poveri ragazzi.
Solo per educazione lo sto a sentire qualche minuto fintamente interessato. Sinceramente me ne strasbatte il cazzo se un gruppo è derivativo o meno. Una delle mie band preferite sono i Sonics e di Frank Zappa ho sempre apprezzato più i baffi della musica, tanto per esser chiari.

Quella che avete appena letto è una specie di recensione che ho scritto alla fine del 2007. Non ricordo il perché sia rimasta inedita. Qualcuno potrebbe chiedersi il motivo del tirarla fuori proprio adesso. Per un incontro casuale, del tutto casuale: il 28 novembre, alla fine della trasmissione a Radio Sonora dove ero a presentare il libro Andare in cascetta, ho scoperto che uno dei ragazzi lì in studio era stato il bassista dei Winter Beach Disco e che si trovava da un po’ in Romagna per lavoro. Abbiamo chiacchierato del più e del meno e gli ho detto che mi era piaciuto assai il loro primo EP del 2004 di cui, peraltro, avevo scritto su Punkster, un bimestrale collegato a Rumore per un paio d’anni in edicola. Mi ha fatto piacere scambiare quelle due chiacchiere e anche sapere che ha messo su un nuovo progetto, direi piuttosto interessante a partire dalla definizione che hanno scritto sulla loro pagina Facebook: “Ian Curtis Mayfield duo punk and paste”. Si chiamano Il cloro. Qui sotto potete vedere un bel video taglia e cuci.