Post punk scheggiato, ruggine noise, arcobaleni monocolore

GLAAS – Qualm (Static Shock)

Dieci inni disturbati e disturbanti di nichilismo e anarchia. Non poteva essere altrimenti visto che il supergrupp(ett)o in questione ha preso forma e sostanza nel grigiore creativo berlinese, nel post punk fatto di mattoni scheggiati, nella ruggine noise, negli arcobaleni garage psichedelici monocolore.

Ma, per quanto disturbanti, sempre di inni si tratta.

Maestro di cerimonie Alexis Zakrzewska che con la sua voce arrochita velenosissima sorvola il terreno arido reso gommoso dal basso rimbalzante della spagnola Raquel Torre (vi consiglierei di ascoltare An Ode To Ravachol e The Moon). O, come in Easy Living, segue con un’indolenza carica di livore la chitarra lavica di Seth Sutton: uno che via Mississippi ha fatto marachelle con Ty Segall e miracoli weird punk nei troppo poco considerati Useless Eaters. La quota carisma e sintomatico mistero è nelle dolci mani di Cosey Mueller che piroettano impazzite sul synth.

Questo non è un album facile. Per niente. Pieno com’è di ronzii, fratture e minacce sonore fa venire il mal di testa. Un bel mal di testa.

Il modo giusto di attraversare una terra desolata

THE STRANGE FLOWERS – Crossing A Wasteland (Onde Italiane-Rubber Soul/Area Pirata)

Sono in giro da 35 anni, hanno pubblicato una decina di album, nel 2017 è uscita persino una bella compilation su doppio cd per festeggiare il trentesimo anniversario della band. Eppure gli Strange Flowers sono uno tra i gruppi più sottovalutati del rock tricolore. E questa cosa qui è oggettivamente incomprensibile. Troppo psichedelici per gli amanti del garage duro e puro e troppo poco per i flippati dei viaggi cosmici?

Non saprei. So solo che il prof. Michele Marinò (cantante, chitarrista e songwriter principale) e compagni, più che strani sono dei fiori rari e preziosi. Non è facile attraversare una terra desolata, dipende molto da chi ti accompagna. Ecco, questi vecchi ragazzi sono i migliori compagni di viaggio si possa immaginare. Perché infondono sicurezza. E coraggio.

Le righe che seguono non vogliono essere una recensione canonica, quindi inizio col dire che io sono abruzzese (fieramente abruzzese). E da abruzzese A Transient Landing, con quel piano che gioca di sottrazione e le linee vocali appoggiate sulle nuvole, mi fa pensare al vento placido ma implacabile che spettina le cime del Gran Sasso. Subito dopo arriva Dressed In Light And Tears: le chitarre minacciose e il parlato femminile intubato di Sarah Scacchi Gracco mi inducono a trattenere il fiato come se fossi intrappolato in un sottotetto buio di New York. Take Me Away e la sua melodia puntellata dal basso ha il sapore dei sogni infranti sugli scogli e in un attimo eccomi lì, di nuovo a casa, sulle rive dell’adriatico a fissare l’infinito orizzonte del mare autunnale.

Sogni, suggestioni, ricordi, viaggi reali e immaginari si mischiano accavallandosi tra melodie limpide e suoni stratificati dentro questo piccolo-grande disco di psichedelia popolare.

Il disco giusto per attraversare una terra desolata. La terra che calpestiamo tutti i giorni.

Space rock, talento e paraculaggine

THE LAZY EYES – Songbook (Autoproduzione)

Estetica giocosa, palloncini colorati, sorrisi impiantati su quattro belle facce pulite. I figliocci dichiarati di Tame Impala e King Gizzard & the Lizard Wizard ammollano lo space rock dentro ettolitri di limonata. Non possono che evaporare, letteralmente evaporare, melodie avvolgenti spesso sostenute da riff ipnotici che mantengono una commestibilità per qualsiasi palato.

Quando si maneggiano ingredienti del genere le bucce di banana sono dietro l’angolo… e, insomma, è un attimo scivolare o far cazzate. Qui tutto è al posto giusto, ben bilanciato, armonico. Dalla sabbia a granelli fini fini di Tangerine, al groove duro ma mai ostico di Fuzz Jam addolcito letalmente per i diabetici da una voce che più carezzevole non si può.

Nei Lazy Eyes talento e paraculaggine vanno a braccetto dal primo all’ultimo pezzo. Lo si percepisce soprattutto quando i ragazzi di Sydney cavalcano le nuvole in modalità ultra pop con leggere armonizzazioni che fanno tanto Beatles per millennials e centennials: penso a Starting Over, Nobody Taught Me e Imaginary Girl.

Al netto di quanto appena sostenuto va detto – e sottolineato con forza – che la psichedelia amica non fa mai male. Inoltre è quantomeno apprezzabile che tutto questo sia autoprodotto su vinile, cd e persino cassetta.

Cazzo all right! Andrew Moszynski e Chad Ross ancora ai controlli della cometa

In uno degli ultimi numeri di Sotto Terra intitolai la mia colonnina di recensioni “Volevo una casetta in Canadà”. Il pezzo attaccava così: “Con i suoi 80.000 abitanti di origine abruzzese Toronto è di fatto la seconda città dell’Abruzzo a un’incollatura da Pescara. Io stesso, che sono di Teramo, ho diversi parenti laggiù: ricordo che un’estate venne a trovarci una cugina di mia madre, s’affittò un’orribile Lancia Trevi e in uno slang assurdo chiese dove poteva parkare lu car. Forse per questo il Canada m’è sempre piaciuto. A casa ho più dischi di gruppi canadesi che inglesi”. Aggiungo che questa cugina di mia madre si chiama Marilena e faceva sganasciare quando ordinava il suo cono gelato al limone giornaliero prorompendo in un liberatorio “cazzo all right!”.

La colorita esclamazione la voglio dedicare a due tizi di Toronto, temo sconosciuti ai più, che si chiamano Andrew Moszynski e Chad Ross. Nella seconda metà degli anni ’90 hanno messo su quell’incredibile macchina da guerra garage rock dalle marcate tinte R&B chiamata The Deadly Snakes dove Chad si divideva tra chitarra, basso e mandolino, mentre Andrew percuoteva le pelli non disdegnando di dare il suo contributo alla terza chitarra. La loro laison musicale ha basi solide, insomma, rinsaldate nella breve ma efficacissima esperienza dei Quest For Fire con i quali hanno pubblicato due album tra il 2009 e il 2010 per Tee Pee Records.

Sempre sotto l’ombrello della storica etichetta newyorkese hanno continuato a sondare gli spazi celesti calpestando il terriccio psichedelico a nome Comet Control. Due album tra il 2014 e il 2016, poi uno stop durato quasi 6 anni. L’estate scorsa sono tornati e io, che di base sono un vecchio sognatore, ho subito pensato ai due professori dell’Università della Pennsylvania che nello stesso periodo hanno scoperto 2014 UN271, l’asteroide di una larghezza stimata tra i 100 e 200 km diretto a tutta velocità verso il sole. Ecco Inside The Sun è quella roba lì. Però senza fretta. Ok, l’iniziale Keep On Spinnin’ coi suoi 7 minuti ci catapulta dentro un vortice cinetico di heavy psych rock dalla progressione motorik e riff ipnotici che aprono come una mela la foschia shoegaze. Giusto il tempo di domare l’onda (Welcome To The Wave) che torna il super groove in groppa allo stoner adrenalinico di Secret Life. Ma fa caldo, dentro al sole. E il fuzz in punta di merletto prende il sopravvento nella ballata lunare Good Day To Say Goodbay. Così come la morbida, elegante, orchestrata grazia beatlesiana s’insinua nella conclusiva The Deserter.

Io e Andrew abbiamo deciso di scrivere e registrare il disco da soli. La maggior parte di quello che senti è stato eseguito da noi”, dice il cantante Chad Ross. Il controllo della cometa è ancora una questione a due. Questo è chiaro. Tuttavia è giusto ricordare anche la bassista Nicole Howell, il batterista Marco Moniz, il tastierista Jay Lemak e l’etereo violino di Sophie Trudeau dei Godspeed You Black Emperor.

 

Del perdere pezzi e ritrovarli dentro due piccoli dischi

Sono stati pubblicati diversi mesi fa. Zöe dei NIGHTSHIFT a fine febbraio, What’s Growing dei WURLD SERIES a metà marzo. Come al solito non sto sul pezzo, piuttosto li perdo i pezzi. Questi due piccoli album li ho scoperti solo in estate. Per caso. Girovagando su Bandcamp. E me li sono gustati in cuffia, sotto l’ombrellone, mentre vedevo scivolare passivamente ciabatte e piedi nudi sulla passerella in cemento che porta al mare.

Mi sento anche un po’ in colpa perché entrambi gli album sono stati scelta del mese nel boxino “Indie” di Arturo Compagnoni su Rumore. Una mia lettura fissa, per fiducia nei confronti di Arturo e pure perché siamo dirimpettai. Ma, come dicevo, sto perdendo colpi. Sarà la pandemia, la galoppante miopia, l’aver deviato sovente dalla sharia (leggasi retta via). Sia quel che sia, questi album qui sono stati proprio una gran bella compagnia.

Un viaggio onirico quello del combo di Glasgow tra sperimentazione, post punk, indie kraut morbido e ipnotico. Orange Juice e This Heat. Ok. Ma anche Sugarcubes, almeno nella mia testa. Degli Sugarcubes saggi e pacificati che si riformano 30 anni dopo per andare in tour sulla luna. Un piccolo miracolo l’arrivo della chitarrista, cantante e clarinettista Georgia Harris mentre la band stava scrivendo Zöe. Come sono miracolosi il basso rotondo di Fences, i sintetizzatori siderali e i droni di Outta Space e Power Cut, le voci piene di grazia che riempiono Infinity Winner, la sezione ritmica pulsante di Romantic Mud e della title track. Inedite delicatezze arty per le mie orecchie foderate d’amianto. Ma al cospetto di un’eleganza così minimalista e misurata è facile capitolare.

Altra storia quella dei Wurld Series di Luke Towart che una decina d’anni fa ha piantato baracca e burattini e dal natio Lancashire si è trasferito a Christchurch, Nuova Zelanda. Uno più uno di solito fa due. In questo caso il lirismo folky britannico si è compenetrato con il suono sghembo di marca Flying Nun. In mezzo il meglio dell’indie rock dinoccolato ma non troppo degli anni ’90: dai sempreverdi Pavement ai Superchunk, passando per i Weezer in rotta sulle Hawaii nel fulmineo chitarrismo di neanche un minuto e mezzo Grey Man.

È bello perdere pezzi e poi ritrovarli dentro due piccoli dischi. Sì, è proprio bello.