SONNY VINCENT e TESTORS: New York punk heroes

Testors

Si abusa spesso di termini quali seminali e pionieristici ma in questo caso ci stanno tutti, nonostante Sonny Vincent e i suoi Testors siano inspiegabilmente assenti dalla storiografia punk newyorkese tanto da non comparire, neppure per sbaglio, nella bibbia Please Kill Me di Gillian McCain e Legs McNeil.
La prima volta che ho visto Sonny Vincent dal vivo è stato nel 2003 in quel gran bel posto che era l’Indhastria di Giulianova, di fronte a quattro gatti. Dove, per la cronaca, fece un concerto della madonna con una band altrettanto della madonna che, tanto per dire, schierava al basso un certo Ivan Julian (Voidoids e molto altro). In quella circostanza Sonny si fece quattro chiacchiere con l’amico Paolo Marini. L’intervista e una mia storia sulla sua straordinaria avventura musicale finirono su MOOD n. 11, un free press che facevamo qui a Teramo.
L’occasione per ricontattare questo eroe minore del punk a stelle e strisce mi è stata servita su un piatto d’argento dalla ristampa della raccolta Complete Recordings 1976-1979 a firma Testors Featuring Sonny Vincent. Parte di quello che state per leggere è finita nella rubrica Flashback di Rumore di febbraio 2015, il resto è roba inedita rimasta fuori per questioni di spazio.
La raccolta, pubblicata nel 2003 dalla Swami con tutto il materiale del segreto meglio nascosto del punk newyorkese del ’77, è stata ripubblicata a fine 2014 dalla tedesca Alien Snatch! su doppio LP arancione (37 pezzi) e doppio cd (41 pezzi), entrambi con copertina apribile o gatefold per chi non parla come mangia. Un manufatto discografico monumentale con 11 inediti registrati in studio nel biennio ’76-’77 che mostrano una band già matura nel tirare pugni punk e flirtare con il r’n’r di strada, non facendosi mancare ballate decadenti da pelle d’oca. I brani live fanno assaporare l’aria di quegli anni al Max’s e al CBGB’s. Il secondo disco contiene gli inediti del ’79 compresi Together e Time is Mine, i 2 pezzi che finirono sull’unico 7” del 1980.
Roba incendiaria, ieri come oggi.

La storia di Sonny Vincent ha radici antiche. Già nei primi anni ‘70, spiantato e senza fissa dimora, inizia a fare pratica con Distance, Liquid Diamonds e FURY, band ancor più sconosciute dei Testors che nella seconda metà del decennio hanno calcato i palchi prestigiosi della grande mela, come mi dice lui stesso, gentile e particolarmente loquace.

C’è stato un momento nel quale si doveva scegliere se essere una band del CBGB’s o del Max’s. Noi suonavamo in entrambi i posti, nessuna esclusività. La verità è che suonavamo ovunque riuscissimo a ottenere un ingaggio”.

L’essere così randagi e ostinati non li ha di certo aiutati. Nondimeno resta un mistero che i Testors in vita abbiano inciso un solo singolo. E pensare che Joey Ramone pare girasse con un loro nastro che tirava fuori quando gli chiedevano consigli su come suonare punk:

Non voglio dire cose negative perché al momento mi sto divertendo e sono in un buon momento, ma per rispondere alla tua domanda onestamente quando ero nei Testors avevo un odio viscerale per i meccanismi del music business, cosa che mi porto dietro ancora oggi. La gente sarebbe sorpresa se conoscesse veramente i meccanismi che aprono la strada a una band. Tra il ’75 e il ’79 il mio unico obiettivo era quello di creare musica onesta, urgente e con una integrità a prova di proiettile. Non è mio stile sputtanare le persone ma posso dirti che il bassista di uno dei principali gruppi della scena faceva sesso con il presidente di una casa discografica e pure con sua moglie. Prima di essere un bassista era un marchettaro; nonostante la sua band fosse incredibile e rivoluzionaria, firmarono un contratto discografico per questi motivi. Non abbiamo mai inviato nastri o demo alle grandi case discografiche perché rappresentavano tutto ciò che odiavamo. In realtà non abbiamo inviato alcun demo in giro e non abbiamo mai incontrato uomini d’affari che ci potessero aiutare. Il materiale completo dei Testors ristampato ora su Alien Snatch! è stato registrato per lo più nel nostro loft da Carl Cuminale, un amico del Bronx. È stato meglio così perché ero molto esigente sul suono e sull’approccio e non volevo che un produttore rovinasse tutto. I ‘ragazzi’ dei Testors stanno per lo più a New York ma non sono più attivi nella musica. Sono ancora in contatto con loro, abbiamo un buon rapporto”.

Testors Featuring Sonny Vincent "Complete Recordings 1976-1979"

La vita di Sonny è stata durissima, segnata dal Vietnam, da riformatori, droga, carceri, ospedali psichiatrici. Tuttavia, al contrario di quanto si possa pensare, ai margini del luccichio sballato che fa tanto immaginario rock:

La scena di allora era molto vivace, eccitante, popolata di persone meravigliose, ma c’era sempre un lato viscido e io ne stavo fuori. La scena ‘junkie’ la trovavo noiosa, non sono mai stato un fan di William Burroughs e odiavo il dramma che circondava tutte quelle stronzate con Johnny, Jerry e Willie; non era proprio la mia idea di ‘cool’. Nella tradizione della letteratura e del r’n’r è stato creato a tavolino un enorme immaginario di coolness, ma non era davvero cool. Anche se mi piaceva sballarmi e fare cazzate, non era il mio stile di vita quotidiano. Noi Testors eravamo molto intensi ma in un modo diverso, non consideravamo la musica come un party, per noi era una questione di vita o di morte. Ok, eravamo giovani, ma credevamo che le sorti del mondo dipendessero da noi”.

I Testors sono stati rivalutati negli anni ‘90, soprattutto in Europa, con i due 10” dati alle stampe dalla tedesca Incognito e con l’album del 1999 assemblato dalla nostra Rave Up Records nella incredibile serie American Lost Punk Rock Nuggets. Chiedo a Sonny come se lo spiega e se magari sia dovuto anche alla sua frenetica attività in quel periodo. Penso agli Shotgun Rationale nelle cui fila sono passati Bob Stinson dei Replacements, Cheetah Chrome dei Dead Boys, Greg Norton degli Hüsker Dü, Spencer P. Jones dei Beasts Of Bourbon, Chris Romanelli dei Plasmatics, ecc. Alla sua lunga collaborazione con Moe Tucker, o all’album Pure Filth a nome Sonny Vincent & His Rat Race Choir, ovvero il supergruppo con Cheetah Chrome, Captain Sensible dei Damned, Scott Asheton degli Stooges e Scott Morgan della Sonic’s Rendezvous Band.

Non saprei, sinceramente. Eravamo incasinati in un sacco di storie, non avevamo un album, tantomeno una promozione adeguata, ma devo anche ammettere che parte della responsabilità è stata mia: ero un selvaggio, niente affatto interessato ad avere a che fare con contratti e avvocati. Detto questo, in tutta onestà, ho sempre saputo che un giorno i Testors sarebbero stati rivalutati. Sentivo che prima o poi il nostro lavoro sarebbe stato apprezzato senza il clamore e la pubblicità. Sono molto soddisfatto del fatto che le persone ci hanno scoperto ora e posso dirti che è esattamente come dovrebbe essere! Non potrò mai avere degli incubi tipo ‘Oh se solo non avessimo dato ascolto a quel fottuto produttore o a quel cazzo di manager’. La musica dei Testors è cruda e meravigliosa, e sarà così per sempre”.

Una vita quella di Sonny vissuta in strada dall’età di 13 anni, solo per la musica che lo ha portato a collaborare con un’infinità di leggende del rock. Oltre alle già citate aggiungerei Sterling Morrison, Richard Hell, Jim O’Rourke, Thurston Moore, Ron Asheton e Jimmy Page. Ma su chi sia stato il migliore musicista con cui abbia suonato e quale la miglior band dell’epoca del Max’s del CBGB’s mi dà una risposta che non mi aspetto. O forse sì, a pensarci bene:

Bobby Stinson. Una persona complessa, un folle pieno di sensibilità che un giorno mi disse sarebbe morto la musica. Gli volevo bene, mi manca davvero tanto… sulla miglior band non ho alcun dubbio: i Suicide di Alan Vega e Marty Rev”.

A 60 anni suonati Sonny Vincent, il cui vero nome è Robert Ventura, macina ancora grandioso r’n’r con la sua fedele Les Paul a tracolla. L‘album Cyanide Consommé pubblicato nel 2014 su Big Neck è una bomba. Non sono da meno gli album-raccolta del 2015 Plutonium Dreams e Psycho Serenades. In quest’ultimo “infila 14 serenate psicotiche, pescate per lo più dal passato, che sbranano tanti giovinastri pim-pum-punk dei giorni nostri. Per tirare una bella linea basterebbe l’apertura magniloquente affidata alla ballata elettrica Black Sea, anthemica al cubo”, come ho scritto nella recensione pubblicata su Rumore #284.

Sonny Vincent con il nipote Cayden

Nel concludere vi vorrei invitare a una buona azione. Un azione più punk di quanto si possa pensare. Un anno fa, esattamente il 2 gennaio 2016, un esplosione di gas ha provocato un tremendo incendio che ha sconvolto per sempre le vite del figlio di Sonny Vincent, Robert, di sua moglie Sarah e del piccolo Cayden di appena 9 anni. I tre sono rimasti pesantemente ustionati e hanno perso tutto quello che avevano. La buona azione è contribuire alla raccolta fondi per le loro cure mediche attraverso questo indirizzo: https://www.gofundme.com/xnvynbcc oppure versare ciò che potete tramite PayPal all’indirizzo e-mail: sonnyvincentpersonalmail@gmail.com. Che il rock and roll vi abbia in gloria.

THE FREAKS – da Cagliari a Cleveland il passo è breve!

Dieci anni fa esatti, in questo periodo, intervistai Luca Olla dei cagliaritani Freaks. Per una serie di sfighe concatenate l’intervista non è mai stata pubblicata. Il giornale a cui era destinata chiuse e il tipo di una fanzine dell’epoca che si era mostrato interessato a stamparla è scomparso nel nulla e con lui la bella zine cartacea. Mi sono improvvisamente tornati in mente i Freaks perché il 25 marzo suoneranno a Il Baratto di S. Atto (TE) i Thee Oops, un bel gruppo punk-hc che annovera un paio di tizi passati dalla band di Luca Olla. E quindi ho pensato di proporlo qui sopra l’articolo-intervista, senza editing, così come nacque dieci anni fa. Buona lettura.

The Freaks - Luca Olla

Mi piacciono i gruppi r’n’r sardi perchè stanno fuori da qualsiasi giro. Mostrano il lato selvaggio senza pudore. Appaiono e scompaiono quando meno te lo aspetti. Non hanno maschere e non conoscono regole. Tanto meno clichè da seguire. E poi hanno i loro tempi e questa, si badi bene, è una conquista.

I Freaks rispondono in pieno al quadretto appena delineato. Nati nell’estate del 2000, ci hanno messo due anni a buttar fuori il primo 7” e un altro paio d’anni per rifarsi vivi nella compilation su cassetta Burnin’ Material pubblicata dai tipi della fanzine Alphamonic. Nell’estate del 2005 la brindisina Lo-Fi Records ha ridato loro l’opportunità di sputare odio dentro un altro magnifico 45 giri. Chi si scioglie al cospetto del punk settantasettino senza museruola sa di cosa sto parlando, tutti gli altri sono pregati di ascoltare le parole di Luca Olla: “Ho avuto l’onore di essere nell’ultima formazione degli Sleepwalkers, prima ancora suonavo nei Trip Makersi Freaks sono nati a Cagliari come punk band totalmente devota al vero punk, quello che va dai vari “Killed By Death” alla scena di Cleveland.”

TheFreaks_7_1Fino al 2004 i Freaks avevano un’altra sezione ritmica, oggi assieme a Luca ci sono Nicola Erdas alle 4 corde, Roberto Fanalli alle pelli e Alberto Alessi nella doppia veste di fonico e ideologo. Cambiano gli addendi ma il prodotto non cambia: cioè punk lercio dei tardi Seventies che nasceva e moriva nell’oscurità di cantine umide. Quel punk aritmico, sboccato e per niente vendibile che soltanto alcuni fan/speleologi tirano ciclicamente fuori dal dimenticatoio, suonandolo, producendolo o raccontandolo su fogli fotocopiati.

La zine Loser’s Bar è stata la mia prima invenzione, la sua nascita venne decisa in un tedioso pomeriggio del primo maggio del ‘98, mentre alla tv furoreggiavano i Prozac+ e hashish, trielina e birra rendevano le cose più sopportabili. Ne sono usciti due numeri stampati, l’anno scorso ho pubblicato il n. 3 sul web. Personalmente lo considero uno dei tanti modi per parlare di quei personaggi senza i quali la terra sarebbe molto più piatta. La Bondage Records invece nacque semplicemente per impedire un autentico crimine: che non uscisse “Close Up” dei Bingo. Non so se ci si rimetterà in pista, dopo “Close up” ci vorrebbero i Dead Boys, no?”.

The Freaks 7" - 2005Non è il caso di scomodare i Ragazzi Morti, ci bastano e avanzano le quattro rasoiate contenute nel recente 7” dei cagliaritani, un singoletto che trova il suo valore aggiunto proprio nella partecipazione dell’anima dei compianti Bingo: “Alex Vargiu lo conosco dal ‘97 quando i Bingo vennero a suonare in Sardegna e coi miei Orange Organics gli facemmo da spalla. Da li è nata una bella amicizia soprattutto con Alex che considero una delle migliori persone al mondo, in barba alle cazzate che si dicono in giro. Dopodichè, come sai, gli ho dato una mano economicamente per far uscire “Close up”. Lui ha ricambiato qualche anno dopo, venendo un week-end a Cagliari a registrarci i 4 pezzi dell’ultimo singolo. A proposito, sta per uscire la compilation “Killed By Trash” sulla tedesca P.Trash nella quale rifacciamo “51%” dei Defnics col grande Alex ai cori: questo era il quinto pezzo delle sessions fatte con lui.

Il percorso dei Freaks non fa una piega. Forse è stato solo un po’ lento ma questo è dovuto al fatto di essere lontani dai circuitini che contano, fagocitando tutto e tutti troppo velocemente: “I pregi di vivere in Sardegna sono alcool, droga, sesso, divertimento assoluto e soprattutto non essere influenzati da tutti quei pseudo-settantasettini-alla-moda-da-poster che sono ovunque. I difetti… be’, essere sempre trattati da schifosi da quei veri schifosi che gestiscono i locali qui da noi. E un benefico, meraviglioso senso di frustrazione.

Adesso che chiunque pretende di sapere cos’è il punk: dal quindicenne brufoloso, passando dal trentenne fanzinaro con la puzza sotto il naso, fino all’attempato giornalista con prole e un mutuo che sogna di estinguere squagliandosi le stampe autografate del misconosciuto gruppetto proto-punk ungherese. Adesso che le “idee” di punk si sprecano come le cazzate pre-elettorali, non si può che stare dalla parte di chi si accontenta di fare giusto un altro singolo in vinile e suonare il più possibile, di chi l’idea di cosa sia il punk ce l’ha eccome ma preferisce tenersela per sé. “Ci piacerebbe fare un terzo singolo entro l’estate, magari partecipare a qualche altra compilation e andare in tour nel profondo Nord… mah, credo che ognuno abbia la sua idea di punk. Sinceramente non ce l’ho e non me ne frega niente di averla… io vado dove mi porta il cuore, sia che si tratti dei Pagans che dei Funkadelic. Noi siamo i “Freaks”, non i “Punks”. Ed è molto meglio!

 

LE CAPRE A SONAGLI

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Della serie “psichedelia freak e cubismo lo-fi per muratori bergamaschi innamorati di Syd Barrett

Cosa succederebbe se Les Claypool e Antonio Rezza andassero in vacanza assieme? E se Butthole Surfers e Violent Femmes facessero una jam a casa di Appino degli Zen Circus? La risposta al primo interrogativo ce la dà Tre e 37, al secondo Serpente nello stivale.
“Il celeberrimo corto di Rezza Hai mangiato? accorda comicità e grottesco in una forma estetica che può ben raccontare il nostro approccio in fase di scrittura. Siamo molto contenti che Tre e 37 abbia partorito un’immagine tanto bizzarra quanto interessante (Claypool a cena con Rezza) è proprio questo l’intento de Il Fauno. La casa è di Appino ma lui non c’è, vero? A parte le battute, sì l’approccio che accomuna gli artisti citati, l’irriverenza della loro musica, potrebbe essere una lente attraverso cui guardare Serpente nello stivale.”
E sono solo 2 dei 14 pezzi del nuovo album di Le Capre a Sonagli, ex Mercuryo Cromo. Un concept circense, freak, psichedelico e cubista, diviso in quattro tempi. Roba sporca, lisergica, lo-fi, con voci ovattate come nel delirio noise Goo Porcaputtana e strumenti desueti tipo il flautino Lakota in Piccolo di Joe Koala. Un disco personale e intelligente che, peraltro, è anche la colonna sonora di un film d’animazione:
“Teniamo a specificare ‘anche’ visto che Il Fauno è prima di tutto un disco musicale. Durante la fase creativa immaginiamo luoghi, personaggi, situazioni. Abbiamo pensato che un cartoon avrebbe potuto raccontare bene il nostro immaginario e che sarebbe stato divertente lavorarci sopra, ma ci sbagliavamo: ora ci troviamo con un carico di lavoro che ci terrà occupati fino a marzo, quando il mediometraggio sarà completo.”

LeCapreASonagli_IlFauno

Di solito vado cianciando di immondizia garage-punk-weird-lo-fi. Ma se mi capita a portata di orecchie un disco “diverso” interessante ne scrivo con piacere. Il breve pezzo-intervista sopra, in forma leggermente più sintetica, è stato pubblicato nella sezione “Futura” di RUMORE di luglio-agosto 2015.

Caballero siempre (en)duro

Fremo per l’imminente uscita di Deep Breath, nuovo (mini)album dei toscani Ray Daytona and the Googoobombos. Sicché ho pensato bene di riproporre la chiacchierata che feci con Fernando, alias Mr Ray Daytona, in occasione dell’uscita di Caballero. Succedeva esattamente tra anni fa. Su Black Milk.

coverCaballero

Caballero era la mitica motoretta 50 da enduro molto in voga negli anni ’70 ed era il nome della anch’essa mitica e mai dimenticata rivista per adulti. Nel 2011 gli inossidabili Ray Daytona and the Googoobombos chiamano allo stesso modo il loro sesto album e, secondo me, tutto torna. Alla grande, direi. Mi chiedo a quale Caballero abbiano pensato scegliendo il titolo. La lunga risposta è del chitarrista e anima del gruppo senese Fernando Maramai: “Inizialmente l’idea di Caballero è venuta come commento al quadro di Echaurren, ‘La fine del tempo’, dove ci sono appunto un ‘tristo mietitore’ a cavallo e una scimmia-madre in lotta. Ma la parola ci è piaciuta soprattutto perché secondo le nostre esperienze personali e i nostri ricordi, aveva in sé vari riferimenti e si ricollegava a diverse cose: in primis la rivista porno-erotica Caballero, rea di svezzamenti autoerotici, poi il motorino (io in realtà viaggiavo in Motobecane, poi in Califfone, ma insomma…). C’è poi una vecchia pubblicità-Carosello del caffè in cui appaiono come personaggi una certa Carmencita e un certo Caballero. E non ultimo: un paio di anni fa eravamo in tour in Spagna e mentre ci spostavamo da Madrid a Montpellier la Policìa spagnola ci ha bloccati in autostrada con un intervento spettacolare. I tipi non parlavano una parola in inglese, ci siamo capiti un po’ alla meglio in spagnolo, ma a noi sembrava che neanche sapessero la loro lingua perché ogni due parole ci dicevano ‘caballero’.”

Dalla seconda metà degli anni Novanta i Ray Daytona and the Googoobombos di strada ne hanno fatta molta, fisicamente e metaforicamente. Mantenendo intatto il loro marchio di fabbrica sono riusciti a evolversi, a non rimanere impigliati nella rete del surf strumentale più o meno filologico da cui sono partiti. In tal senso Caballero rappresenta un ulteriore passo in avanti rispetto al precedente album One Eyed Jack, che già mostrava una buona eterogeneità stilistica. Certo, non mancano i numeri tipicamente instro-surf che sanno di classico, con tutti riverberi e tremolii del caso, dalla rilassata Mojito Lounge, che si tira proprio un bel pisolino su un’amaca, fino all’energica Hard Bodies dove i nostri ci fanno fare un bel giro sulle montagne russe del surf. A colpire duro sono però i pezzi cantati dalla bassista Rosie e dal chitarrista ritmico Doctor D. La prima riscalda come meglio non si sarebbe potuto fare il maestoso garage-rock di Walk Down The Line, cavalca con sicurezza l’imbizzarrita galoppata teen punk Space Time Spyral e imprime una notevole spinta post-punk alla sonica Count Me Out, per quanto mi riguarda il pezzo più sorprendente dell’intero album. Quella vecchia volpe di Doctor D, con o senza Fez a coprire i quattro peli che gli rimangono in testa, blueseggia come un diavolo posseduto dal punk in Bourbon City Blues e sputa catarro crampsiano in Uncle Wolf.
La chitarra solista di Ray Daytona, ovvero il già citato Fernando Maramai, in simbiosi con la ritmica Doctor D, crea monumentali geometrie sonore che sono frutto tanto della pancia quanto della testa. Oggi come in passato è proprio questo il maggior pregio dei vecchi ragazzi senesi che col tempo hanno affinato sempre più la ‘tecnica’ nel creare musica per immagini, abbracciando la magia del cinema (da quello di serie A fino a quello di serie Z) e delle arti figurative. È naturale, pertanto, che abbiano sempre cercato la collaborazione con artisti in grado di dare una immagine credibile ai loro sogni/deliri musicali. Dopo le due copertine di Winston Smith (Space Age Traffic Jam del 2002 e Fasten Seat Belt del 2004) e quella di Mr Esgar (One Eyed Jack del 2007), infatti, anche Caballero vanta una cover d’artista.

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Chiedo a Fernando com’è avvenuto l’incontro con Pablo Echaurren: “Ho conosciuto Pablo qualche anno fa ad una sua mostra. Con lui condividevo la passione per i Ramones e per il futurismo. Ma una spinta che mi portava a lui era anche il fatto che da ragazzo avevo visto tante volte i sui lavori su Frigidaire e Il Grifo. E qui si torna al discorso ‘Caballero’ e al periodo in cui siamo cresciuti – seconda metà anni Settanta, primi Ottanta – un periodo che in Italia è stato rimosso per via del terrorismo ma che in realtà andrebbe molto approfondito perché assai più ricco del ventennio berlusconiano. Andando sullo specifico, il quadro di Echaurren ci sembrava perfetto per il disco perché esprimeva una sofferenza ma allo stesso tempo era ricco di colori e di movimento. Ecco più che una sofferenza una lotta: quella Grande Madre che cerca disperatamente di allontanare i teschi, le pennellate che tracciano linee coloratissime e schizzi (è sangue?), e poi questo cavaliere che combatte. Secondo me esprimeva perfettamente lo stato d’animo che ha portato a fare quel disco. Forse quella Grande Madre ci rappresenta, nel senso che suonare (con tutte le sue implicazioni: il lavoro di gruppo, viaggiare in furgone, ecc.) è un atto che ti dà l’illusione di tenere a distanza la morte. Poi si invecchia lo stesso e qualcuno ci rimette davvero la pelle, ma questo è un altro discorso. Fasten Seat Belt era un disco piuttosto visionario e naif ma limpido, tutto in luce, e Winston era riuscito a capire perfettamente quello che volevamo da lui per la copertina. One Eyed Jack era invece un disco più criptico e scuro, quasi esoterico per certi aspetti. E l’olio su tela di Mr. Esgar lo era altrettanto, con l’ambigua danza dell’angelo con quella specie di demonio al centro; mentre intorno si sta giocando una partita a carte (Dostoevskij?). C’era poi un pezzo, Heart of Darkness, che ci faceva pensare sia a Link Wray che al viaggio di Marlow in “Cuore di tenebra” di Conrad. Caballero si pone su quella linea, inizialmente doveva intitolarsi Everybody Loves you When You’re Six Feet Under, citando una vecchia frase di John Lennon. Poi abbiamo pensato a Rollin’ Over, come la canzone degli Small Faces. Infine la scelta definitiva: Caballero. Mi rendo conto che è molto confuso quello che ti dico, ma la musica per noi nasce per immagini e associazioni. È un po’ un processo psicanalitico che poi si manifesta grazie ai suoni”.

I più conoscono Pablo Echaurren come artista dell’immagine (pittore, illustratore, “fumettista”, ecc.) ma è molto di più. Per esempio è un scrittore a tutto tondo che, tra il serio e il faceto, ha dato prova sia delle sua capacità di romanziere che di eccellente saggista. Consiglio ai lettori di recuperare almeno Chiamatemi Pablo Ramone (Fernandel, 2006) sul suo personalissimo legame coi Fast Four e, per tutti gli amanti delle 4 corde, Bassi Istinti – elogio del basso elettrico (Fernandel, 2009).
Chiudo lo scambio di battute con Fernando chiedendogli proprio se il vecchio Pablito ha ‘commentato’ il Thunderbird della bassista dei Googoobombos: “Abbiamo parlato di strumenti e in effetti lui ha una bella collezione di bassi. Giulia adesso ne ha due di Thunderbird vintage. In concerto ne usa uno degli anni Settanta, con due pick up. Quello più vecchio, che se non ricordo male è del ’63, è quello che hai visto quando siamo venuti a Teramo. Ne ha uno praticamente uguale anche Echaurren. La leggenda dice che negli anni Sessanta/Settanta i Thunderbird di quella annata se li sia comprati quasi tutti Entwistle, ma evidentemente almeno due gli sono sfuggiti”.

I ragazzi dello Zoo di Roma

Quello che state per leggere è uno speciale sul punk romano pubblicato in due puntate su Black Milk tra la primavera e l’estate del 2011. La “scusa” era parlare di musica che mi appassiona da sempre e che allora era davvero poco calcolata dalla stampa di settore. E poi celebrare la nascita della White Zoo Records, etichetta leccese che tra pochissimo, l’8 novembre, porterà a Brindisi dell’ottimo punk rock con la prima edizione del White Zoo Fest.

PARTE 1
logo White Zoo Records_OKNegli ultimi 10 anni la capitale italiana del punk settantasettino è stata la stessa città che dal 1871 è la capitale della nostra sempre più bistrattata Repubblica. Non ci sono cazzi, amici. Dai Bingo in poi i gruppi romani, in Italia, sono stati nettamente i migliori nel dare forma e sostanza ai tre accordi più brutti e marci della musica. Invero lo scioglimento di Taxi e Transex stava facendo vacillare questa certezza, ma nel frattempo hanno iniziato a farsi strada a sportellate i grandi Idol Lips che sono sì di Ceccano (Frosinone) ma “romani” in tutto e per tutto. A tenere alta, o meglio eretta, la bandiera sono arrivati poi Silver Cocks e The Steaknives, due nuove band cattive, dure, perverse e per niente accomodanti, come il vero punk dovrebbe sempre essere.
Per farla breve, tutta ‘sta gentaglia – vecchia e nuova – della città eterna è stata “raccolta” oggi da un’etichetta discografica di Lecce chiamata White Zoo che ha messo una mano sul cuore e l’altra nel portafogli ed ha buttato fuori un vinile più bello dell’altro. Per sapere qualcosa in più di questa connection Roma-Lecce, ho scambiato quattro chiacchiere con i protagonisti, a partire da Sergio: il boss dell’etichetta.

Perché White Zoo, come e dove siete nati, chi siete e, soprattutto, cosa volete da noi?
White Zoo ronzava come marchio nella mia testa già da un po’ di tempo. Avevo fatto questo sogno dove mi ritrovavo catapultato in una sequenza di Cristiana F. – Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, quella in cui David Bowie canta Station To Station. Sono cresciuto nel quartiere “ferrovia” di Lecce, una zona battuta dai transex (non a caso), teppistelli e da svariati drogati. Insomma, il Duca Bianco, la droga, lo zoo, la stazione, i travoni. Tutto torna, diciamo. Però nel sogno mi rompevo le palle e ricordo distintamente che desideravo un po’ di punk al posto di Bowie, andavo in cerca di emozioni forti evidentemente. Per carità, non fraintendermi, adoro zio David. Comunque sia, White Zoo mi sembrava un bel nome per una label di questo tipo. L’etichetta di fatto nasce a Lecce. Siamo attivi ufficialmente da un paio di mesi e fischia. Siamo in tre per adesso: io, Sergio “piggy” Chiari, il megadirettore galattico in pratica; Cristina Diez, che è la responsabile grafica, ha creato il logo, il sito e ha realizzato la copertina del 7″ dei Transex, una talentuosa creativa. Poi c’è Stefano Materazzi, altro eccellente grafico, che si occupa della parte tecnica e che ha prodotto anche svariati siti fetish dei quali la rete è tempestata (enjoy!). Alla famiglia stanno per aggiungersi due altre eccellenti ragazze, ma non posso dire troppo per adesso. Una sarà la nostra donna all’estero e poi vi è un’altra fantastica mujer, che è introdotta negli ambienti punk che contano, e che dovrebbe occuparsi del booking visto che le nostre band sono decisamente ingestibili, pessimi soggetti, non gliene sbatte davvero niente, non vendiamo fumo. Cosa vogliamo da voi? Vogliamo solo farvi divertire con noi e abbrutirvi!
Tra vecchie (Transex, Taxi/Giuda) e nuove leve (Silver Cocks, The Steaknives) vi siete concentrati sul punk di derivazione settantasettina della capitale…
Beh, quel tipo di suono per quanto mi riguarda risponde a ciò che io intendo per punk rock, la contraddizione insita in quello che concepisco come PUNK: non solo il rock, ma anche la provocazione, la fascinazione estetica, l’aggressività e l’ambiguità, tutto questo era un valore per chi faceva punk rock nel ’77 come nel ’73. Ma questa mia riflessione non ha niente a che fare col purismo, semplicemente nasce da una mia convinzione “filosofica”, e cioè che l’essere umano è contraddittorio, il punk è intrigante come la nostra natura, che è complessa. Questo lo differenzia dall’hc e da altri generi musicali che ancora oggi sono anche più frequentati musicalmente. Il PUNK non ti fornisce un’identità precisa, ma ti sveglia, ti fa porre delle domande. Questo tipo di suono ha conservato la propria cattiveria e il proprio fascino e continua ad esercitarlo su persone dalle più differenti estrazioni musicali. Ti faccio un esempio concreto: non posso non citare i miei amici Natilbox e Dj Kosmik, dj techno e house che apprezzano queste band e vanno a vedersele in concerto magari, e comprano i loro dischi, perché in esse riconoscono quelle qualità di cui ti parlavo, l’elettricità e l’eccitazione, la violenza e la freschezza, la stessa che loro cercano frequentando magari altri generi musicali. La ritrovano in questi dischi perché queste band non sono “finte”, non sono una caricatura dei tic del punk da cartolina. Non si inculerebbero mai i Casualties, ma gli piacciono i Silver Cocks. È chiaro! Sono trasversali! Basta citare Transex e Taxi (ora Giuda) e sai perfettamente di cosa parlo. Nei primi anni zero convinto di queste loro qualità ho preso un puzzolente treno da Lecce, ho macinato km e sono andato a vedermeli al primo “Road To Ruins” in quel di Roma, come un novello Pasolini, splendida e misera città che non smette di incantarmi. Da allora queste persone fanno parte della mia vita e ne sto dando pienamente dimostrazione. Fatti, non parole. È stato dunque un processo molto naturale coinvolgere poi Steaknives e Silver Cocks. Questo per adesso: non produrremo solamente punk in stile ’77 (e i Giuda non lo sono infatti), la nostra natura è troppo eccentrica, hahah! La qualità sonora poi delle creazioni musicali di queste band è di serie A, non esattamente ’77. Chiedere conto al geniale Danilo Silvestri, produttore musicale del miglior disco rock del 2007, vale a dire Yu Tolk Tu Mach dei Taxi.
L’unica gita fuori porta, per ora, l’avete fatta in Ciociaria dando alle stampe la versione in vinile del nuovo album degli Idol Lips.
È molto semplice, ci hanno contattati e ci hanno detto “manchiamo noi all’appello!”, ed era vero chiaramente. Ci hanno spedito il master, è la loro migliore uscita ed ha anche il nostro logo. Che dire? colpito e affondato!
Mi pare che il “vostro dio”, come del resto il mio, sia il vinile: cercate di spiegare meglio agli infedeli cosa si perdono ascoltando musica nell’orrido formato cd.
Ahi ahi caro Manuel, non vorrei deluderti, ma non sono un purista del vinile. Quando il denaro me lo consente compro ambedue i formati, cd e vinile. Gli infedeli dovrebbero comprare il vinile? Certo! Io non potrei mai privarmi del suono caldo e gracchiante del vinile, che esalta i bassi ed è solido, ha un corpo tutto suo, estremamente pieno e sensuale, solletica il basso ventre. Ma tutti quanti, punk rockers, jazz listeners, techno minds e via elencando esaltano le qualità del vinile a scapito del cd. Sinceramente non potrei privarmi neanche della chiarezza del suono digitale: col cd mi metto a equalizzare all’infinito per raggiungere quella brillantezza della quale parlava Carmelo Bene a proposito della maniera in cui avrebbero dovute essere ascoltate le poesie di Dino Campana dalla sua viva (e morta) voce. Cazzo ho detto?! E poi me lo sparo in macchina! Comunque non me ne vogliate per questo… del resto stiamo producendo il cd del prossimo, imminente disco dei Giuda e anche quello del disco degli Steaknives: i ragazzini che non hanno un piatto a casa lo reclamano ai concerti! Possiamo noi non accontentarli?

cover TransexIl primo vinile griffato White Zoo che s’è fatto un giro sul mio piatto è stato il 7” EP dei Transex, Heart of the State. Quattro pezzoni che sono l’equivalente di una martellata sulle gengive tirata non al massimo della forza, ma che fa lo stesso un male cane e, soprattutto, produce danni irreparabili. Un dischetto assolutamente inaspettato visto che dei Transex si erano perse le tracce già da qualche anno. L’unico a far luce sulla sua “vera storia” non può che essere il Líder máximo Pierpaolo De Iulis.

Sapevo che eravate morti per asfissia come Brenda, eppure mi ritrovo tra le mani questo vostro nuovo 7″ rosa shocking.
Quello che ti ritrovi fra le mani è l’ultimo rantolo dei Transex. Un disco che raccoglie gli ultimi momenti di vita della band, scioltasi ufficialmente il giorno della morte della nostra amica Brenda, il 20 novembre 2009. Avevamo passato la nottata insieme a lei e Pietro. La mattina dopo è stato uno shock apprendere la notizia. Chi ha ucciso la nostra amica? Secondo noi Gianguarino Cafasso (il pappone delle trans nonché pusher deceduto per overdose lo scorso settembre, ndPier) non c’entra nulla. Hanno voluto affossare la responsabilità su questo uomo per poi ucciderlo, chiudendo così il caso. La risposta sta nell’hardisk del portatile di Brenda, maldestramente sabotato dopo la morte. Il computer custodiva infatti immagini che ritraevano la nostra amica, con personaggi noti e importanti, in situazioni compromettenti. Sergio della White Zoo Records, il nostro produttore, era come un fratello per Brenda e ha pensato bene di avventurarsi nel mondo della produzione discografica investendo i suoi capitali sulla band simbolo di “certe” notti capitoline: i Transex. Il suo è un atto d’amore verso l’universo trans, che troppo spesso è oggetto di violenza e discriminazione.
Vedo che dietro i tamburi c’è il mio concittadino Larry quindi, seppur datate, suppongo si tratti delle ultimissime registrazioni dei Transex.
La svolta mistica di Alessandro, convertitosi alle dottrine di Bhagwan Sri Govinda e trasferitosi a Trevignano Romano, aveva lasciato un vuoto difficilmente colmabile da altri. L’arruolamento del giovane Larry è avvenuto per volontà del sottoscritto, che ha sempre riposto grande fiducia verso la realtà musicale teramana. Un piccolo universo “underground” di grande vitalità e tensione creativa.
Dalla cover di Fascist Dictator dei Cortinas si passa a Red Brigades… amico, il tempo scorre ma tu rimani il solito vecchio punk comunista!
Che ci vuoi fare, il tempo scorre inesorabile, ma la fede verso la causa invincibile del Socialismo rimane sempre alta. Anziché essere la mano invisibile del mercato a determinare le scelte economiche, devono essere gli uomini liberamente associati a stabilire cosa e come produrre, e come ripartire i beni prodotti. Non credo ci siano altre alternative per questa civiltà. Come diceva Carlo Marx “se non dividi la pagnotta, sei un figlio di mignotta” (Das Kapital, 1°libro, 1867).

Transex

Altro graditissimo ritorno – e credetemi non è una frase fatta – è quello degli ex Taxi, dopo la prematura scomparsa del batterista Francesco nel giugno del 2007. cover GiudaSi sentiva proprio la loro mancanza perché i Taxi sono stati la migliore punk band italiana di sempre, almeno per quanto mi riguarda. Non è un caso che siano stati tra i pochi (se non gli unici) alle prese col punk ‘77 ad incidere in modo continuativo per un’etichetta americana con le palle come la Dead Beat e a fare un paio di importanti tour negli States. Ora si fanno chiamare Giuda e sparano proiettili acuminati di glam r’n’r capaci di far sciogliere all’istante un iceberg. Ho chiesto al chitarrista di poche (ma buone) parole, Lorenzo, lumi sul presente e sul futuro del gruppo.
Sono davvero felice che siate tornati per restare: so che è in cantiere l’album…
Proprio così, tra non molto uscirà un altro singolo per Surfin’ Ki e un LP per l’americana Dead Beat Records che verrà presentato a Roma il 28 maggio.
I gruppi punk di una volta si imborghesivano e approdavano alla new wave, voi siete andati a ritroso riscoprendo, nel vostro primo singolo, la parte più gioiosa del glam r’n’r, spargendo zucchero filato (Get It Over) a muso duro (Kidz Are Back).
Personalmente, sono da sempre un fan accanito di band come Slade, Sweet, Hello, Sparks etc. Circa dieci anni fa, poi, ho cominciato ad appassionarmi ai gruppi glam europei minori, il cosidetto Junk Shop Glam (ho anche un blog a riguardo, proudfootsound.blogspot.com), quindi dopo aver deciso che non avremmo più suonato pezzi dei Taxi, la scelta del nuovo “sound” è stata quasi naturale. Dead Beat ha detto che i Giuda sono la “naturale evoluzione dei Taxi”, e poi… riesci ad immaginarci a suonare new wave?

Giuda

Nell’accingermi a salutarvi. mi scuso con voi e con i diretti interessati per non aver scritto neanche una riga sugli album di Silver Cocks e The Steaknives. La verità è che non ho avuto ancora il piacere di ascoltarli; ça va sans dire che rimedierò a breve, anche perché ho apprezzato molto i 7” delle due band romane pubblicati un paio di anni fa dalla statunitense Zodiac Killer Records.

cover Idol LipsChiudo questo pezzo-tributo dedicato alla White Zoo Records e alla (vera) scena punk romana con i “forestieri” Idol Lips che hanno appena sfornato il loro secondo disco dal programmatico titolo Scene Repulisti. Non lo faccio mai, ma questa volta mi permetto la licenza di autocitarmi, riportando ciò che ho scritto altrove a proposito di questo fantastico album: “L’esordio del 2006, Too Much For The City, aveva la forza dirompente di una martellata sui denti che manda in frantumi incisivi e canini in un solo colpo. Difficile ripetersi, se non al limite dell’impossibile. Questi ragazzi ciociari, nel frattempo divenuti un quartetto col chitarrista Tony Volume passato alla voce principale, ce l’hanno fatta alla grande mostrandoci che il punk può ancora essere eversivo ma anche dannatamente maturo […] Gli Idol Lips sono una perfetta macchina da guerra che va dritta per la sua strada, sbranando a morsi il proto-punk dei New York Dolls e poi pulendosi con i lustrini e le paillettes del glam.” C’è davvero poco da aggiungere, se non che nell’album ci sono anche due misconosciute e bellissime cover tutte da scoprire. La prima è Soul Power, un pezzo del 1982 dell’ex frontman di F-Word e Negative Trend, Rik L. Rik, morto nel 2000 a soli 39 anni. La seconda è ancora più oscura, si tratta di Rockin’ on a Rock dei romani Fire che suonarono proprio questo pezzo nel film con Tomas Milian, Delitto sull’autostrada. Le battute che seguono le ho scambiate col bassista Luca.

Il titolo dell’album è tutto un programma, a cosa alludete? Ci entra anche il fatto che siete rimasti in 4 cambiando la voce?
Sei proprio cattivo (si scherza!) no, l’abbandono del cantante e il cambio di formazione non c’entrano niente con il titolo. Scene repulisti è quello che ha subito il punk rock (quello vero) negli ultimi tempi, ormai è talmente fuori moda che è uscito da qualsiasi circuito. E poi capirai, noi veniamo dalla provincia, e a volte riuscire ad organizzare solo un concerto è un’impresa. Il rock’n’roll sembra non far battere il cuore più a nessuno. Se già qualche anno fa i Dictators si chiedevano chi avrebbe salvato il Rock’n’roll… Per fortuna ci sono persone (o supereroi?) come Sergio di White Zoo, con tutte le “persone informate sui fatti”, che cercano di “salvare il mondo un disco alla volta”.
Siete cresciuti molto nel songwriting senza perdere nemmeno un grammo della vostra “forza punk”. Mi pare che Scene Repulisti sia un album molto quadrato e più a fuoco del precedente.
Paradossalmente da quando suoniamo in quattro siamo molto più “quadrati”, con le spalle al muro gli Idol Lips tirano fuori il meglio. Il disco è stato concepito tutto nel giro di quest’ultimo anno, abbiamo trovato (o perfezionato) la nostra sintonia, siamo più affiatati. Abbiamo lavorato tanto sui pezzi, ma è stato molto più facile rispetto ai dischi precedenti, proprio perché sapevamo tutti e quattro dove volevamo andare, che tipo di pezzi volevamo fare… quando siamo entrati in studio per registrarlo avevamo tutto già in mente, non è stato lasciato nulla al caso, tant’è che tutto il disco è stato registrato in meno di una settimana: questo è il punk rock, almeno noi così lo intendiamo, si trattava solo di portare su un pezzetto di vinile l’energia che tiriamo fuori sul palco. Ti confesso che siamo molto soddisfatti di come è venuto fuori poi in concreto. È vero, il disco è più “a fuoco”, ma è anche molto più “raffinato” (se non ruffiano, nel senso buono del termine) rispetto ai precedenti, i pezzi hanno una struttura più “New York Dolls” (se ci scusi l’immodestia del paragone) rispetto alle altre nostre cose. Considera questo: dopo aver registrato la chitarra Tony Volume è volato a New York e ha portato un nostro disco e un paio di bacchette sulle tombe di Johnny e Jerry: il tributo è pagato.

Idol Lips

PARTE 2
Nella prima parte di questo speciale dedicato al vecchio e nuovo punk romano di derivazione settantasettina avevo scritto che “a tenere alta, o meglio eretta, la bandiera sono arrivati i Silver Cocks e gli Steaknives, due nuove band cattive, dure, perverse e per niente accomodanti, come il vero punk dovrebbe sempre essere.” Poco dopo mi scusavo “per non aver scritto neanche una riga sugli album” dei due gruppi nati all’ombra del cupolone perché non li avevo ancora ascoltati. Be’, grazie al buon cuore r’n’r di Sergio della White Zoo Records, sono riuscito finalmente a colmare questa lacuna. cover The SteaknivesE per settimane i due infuocati 33 giri si sono alternati sul mio Dual in radica di noce, facendomi ri-innamorare del punk, quello vero, sempre più difficile da trovare se non riesumando vecchie band dei tempi che furono. I nomi Silver Cocks e Steaknives non mi erano sconosciuti. Tutt’altro. Stavano lì, cristallizzati in un angolo della mia mente da quando, un par d’anni fa, avevo consumato i loro 7” usciti a poca distanza l’uno dall’altro sulla statunitense Zodiac Killer Records. Una sorta di fuga dei cervelli (marci) alla amatriciana. Giovani ricercatori dell’università del punk-rock accolti a braccia aperte negli atenei del nuovo mondo e neanche cacati di striscio nella nostra povera italietta. Fino a che, da Lecce, è partita la controffensiva italica lanciata da un pazzo buono (il già citato Sergio della White Zoo) che li ha voluti per il passo lungo sulla sua neonata etichetta discografica divenuta in breve la nuova, accogliente casa del punk romano.
Non mi dilungherò sulla critica dell’album omonimo dei Silver Cocks e su Devil Inside degli Steaknives. Mi limito a dire che entrambi vanno ben oltre le pur ottime premesse dei 7” americani Holiday In Auschwitz e …We Can’t Stand This World. Gli Steaknives dimostrano di avere un gran tiro nella loro riuscita e finanche originale sintesi tra l’hardcore dei primi Black Flag e il punk svalvolato alla Killed by Death. I Silver Cocks pestano più sull’acceleratore del punk ’77 da borgata affamata di stampo slavo, tirando fuori dal cilindro persino due pezzi in spagnolo (Para La Gente, La Mejor Postura) capaci di elettrizzare in pochi secondi i peli delle braccia.
cover Silver CocksFino ad oggi non sapevo granché della storia di queste due band e neanche m’interessava approfondire. Mi bastava e mi avanzava conoscere la loro musica fatta di corse a perdifiato e magnifici strappi nella dissestata autostrada del punk. Ma di fronte a cotanto spettacolo sonoro anche il più pigro dei pennivendoli r’n’r avrebbe alzato il culo per saperne di più. Eccovi quindi una breve intervista doppia a cui hanno risposto Enrico (il cantante) per gli Steaknives e Vito (il bassista) per i Silver Cocks.

The Steaknives

Partiamo dalla prima, banale domanda: Come vi chiamate, quando siete nati, quanti anni avete e cosa fate quando non vomitate punk rock?
(Steaknives) Noi siamo gli Steaknives: io sono Enrico, l’ugola d’oro della band, gli altri sono Michele, la mente e la chitarra, Antonio il motore/drummer e Damiano il boxer/bassista. Sono circa quattro anni che suoniamo insieme ed il nucleo originale del gruppo era composto dal sottoscritto, da Michele, Davide (basso) e Seba (drummer) tutti e quattro amici d’infanzia di Cagliari e tutti e quattro cresciuti a birra Ichnusa e punk rock! Questa è la formazione che ha registrato il primo EP Per la Zodiac Killer ma che purtroppo non ha mai suonato dal vivo. Dopo il ritorno in patria sarda di Seba, infatti, è entrato in pianta stabile Antonio e sono iniziati i concerti in giro per l’Italia e due grandiose trasferte inglesi. Per la cronaca dopo la registrazione dell’LP Devil Inside c’è stato l’addio forzato di Davide e a questo punto è entrato per circa un anno al basso Vito, bassista degli amici Silver Cocks ma che a causa dei troppi impegni ha lasciato il testimone a Damiano: riuscitissimo e graditissimo nuovo acquisto degli Steak. Oltre all’uscita dell’LP per la White Zoo abbiamo appena fatto uscire il videoclip di Radical Shit girato dai ragazzi della Revok Productions. Per quanto riguarda l’età siamo tutti sui 30 e siamo tutti terroncelli precari, cioè facciamo parte della “Italia peggiore” come dice quel sacchetto di merda di Brunetta.
(Silver Cocks) I Silver Cocks nascono nel 2005 dallo smembramento chirurgico dei Bramborak. Il chitarrista Mario e il cantante Nani decidono di formare un gruppo contattandomi per suonare il basso, poi Walter che verrà presto sostituito da Mauro, l’attuale batterista. Nel 2008 abbiamo vomitato un 7″ per l’etichetta americana Zodiac Killer intitolato Holiday in Auschwitz ma mentre la vacanza ad Auschwitz sembrava andare per il meglio una delle docce malfunzionò e Mario decise che era meglio lasciare la band, forse troppo pericolosa per i suoi gusti. Così è subentrato Solferino, l’attuale chitarrista e da qui ci siamo dedicati alla scrittura dei brani per l’album.
Dove volete arrivare col punk rock?
(Steaknives) Da nessuna parte! Non abbiamo aspirazioni… questa è la prima intervista che facciamo in 4 anni! Non ci ha mai cagato nessuno e tanto meno noi ci caghiamo qualcuno. Va benissimo così… quando ci chiedono di andare a suonare, si va volentierissimo e non siamo per nulla esosi e quando abbiamo qualche pezzo ci chiudiamo in studio e andiamo a registrare dagli amici di Ufo Hi Fi / Hit Bit. A quanto pare non sono così male le cose che registriamo visto che c è sempre qualche pazzo pronto a stamparci. A metà luglio torneremo in studio per registrare tre pezzi nuovi. La cosa più bella del suonare, anche se forse la più banale, è quella di conoscere nuovi amici e nuovi posti… e, ancora più banale ma molto punk, la birra gratis!
(Silver Cocks) Vogliamo sicuramente tutti e quattro la stessa cosa: arrivare ai vertici di almeno due delle multinazionali di armi americane, come la “Locke” e la “Columbia”, al fine di produrre armi nuove e più efficienti… ad esempio bombe a forma di vibratori, fucili a forma di Les Paul e scudi antisommossa sostituiti da raid e crash.
So che siete amici… qual è il miglior pregio e il peggior difetto “musicale” dell’altro? Cosa rubereste all’altra band, fidanzate incluse?
(Steaknives) Nani ha un pene enorme e questo è quello che ruberemmo volentieri tutti noi Steaknives ai cari Silver Cocks. Per quanto riguarda la musica non ruberemmo nulla o meglio è capitato che gli abbiamo rubato il bassista per un periodo! Facciamo un punk rock completamente opposto: loro più europei, noi più ameregani.
(Silver Cocks) Beh che dire degli Steaknives, ci conosciamo bene, siamo amici e musicalmente ci piacciono molto anche se facciamo generi abbastanza diversi… comunque se dovessimo rubargli qualcosa andremmo dritti al guardaroba di Enrico!
Fatemi tre-nomi-tre delle vostre maggiori influenze punk rock’n’roll.
(Steaknives) Le influenze più evidenti sono Adolescents, i primissimi Black Flag, Angry Samoans, Bad Brains e tutto il punk californiano tra il ‘77 e l’81, poi ognuno di noi ha il proprio background di ascolti e di passioni musicali che spesso non c’entrano nulla con ciò che facciamo con gli Steak: Michele è un grande appassionato di blues del delta, io sono malato di junkshop glam rock e lo colleziono a Kg (insieme al compare Lorenzo dei Taxi/Giuda), Antonio sta in fissa col punk rock anni ’90 e Damiano ci va giù duro col punk inglese.
(Silver Cocks) P.F. Commando, Pekinška Patka, Kollaa Kestää.

Silver Cocks

Chi fra voi è più un animale da palco e chi più un animale sotto il palco?
(Steaknives) Sul palco i Silver Cocks hanno Nani che è un animale raro quindi non si discute… forse noi siamo leggermente più quadrati musicalmente e puntiamo molto su questo, i Silver dalla loro fanno un grande spettacolo trascinati dalla bizzarria di Paolo Pasquariello (ovvero Nani). Sotto il palco la lotta è dura, entrambi siamo belle bestie da pub: solo che c’è chi nel pub passa più tempo al bagno e chi al bancone… ehehheheh, dipende a cosa ci si sfida in animalità, insomma!
(Silver Cocks) Nani sopra, sotto, a destra e a sinistra.
Ho l’impressione che la scena punk settantasettina romana sia in realtà molto ristretta, eppure sempre vivacissima e “oltraggiosa”. Qual è, se c’è, il segreto?
(Steaknives) Non la definirei una “scena”, questo termine lo lasciamo ai giornalisti o a chi comunque ci vede dall’esterno. Per quanto ci riguarda siamo un manipolo di amici che si ritrova al KO Club (gestito da Lorenzo dei Giuda/Taxi e altri amici) sito nel quartiere popolare di San Lorenzo, uniti da varie passioni che possono essere la musica, il cinema, certa controcultura, l’antifascismo, la buona birra e la buona cucina. Molti di noi suonano in vari gruppi: Giuda, Silver Cocks, Blackmondays e molti altri. Ci sono tante personalità e personaggi che danno vita a tutto ciò e c’è un interscambio a volte anche di persone tra i gruppi stessi. Michele ora suona la chitarra solista nei Giuda e Vito dei Silver Cocks, come ti dicevo prima, un periodo ha suonato con noi; inoltre citerei anche i geniali ragazzi dei Diecibuchi (gruppo punk rock di qualche anno fa) che si occupano tra le altre cose di grafica (le copertine nostre e dei Silver Cocks) sotto il nome di Daltonic Visions. Sì! direi che siamo un affiatato gruppo di amici con dei picchi di creatività.
(Silver Cocks) Parlare di “scena” a Roma significa perlopiù parlare di un gruppo di amici, siamo da anni più o meno le stesse persone che bazzicano gli stessi posti quindi vuoi o non vuoi ci si conosce tutti, ed è un bene in una città dispersiva come Roma. Il problema è che sembra non esserci un ricambio generazionale, in quanto i pochi gruppi più giovani fanno cose abbastanza distanti dal punk come lo intendiamo noi.
Fate il “vostro” podio olimpico tra Bingo, Transex e Taxi, please.
(Steaknives) 1)Taxi 2) Taxi 3) Taxi.
(Silver Cocks) No comment, non ci piacciono le classifiche e poi sono tutti amici.
Chiudiamo con una frase, una sola, per descrivere Pierpaolo De Iulis.
(Steaknives) Sono stato sei anni coinquilino del caro De Iulis e lo conosco parecchio bene… qualsiasi frase descrittiva della persona Pierpaolo potrebbe farla finire al gabbio: non è il caso!
(Silver Cocks)
Poliedrico, imprevedibile, insostituibile compagno stalinista.

White Zoo Fest