Stiff Richards, Jackson Reid Briggs & The Heaters, Doe St, Speed Week, The Black Heart Death Cult, No Zu: queste sono alcune delle piccole-grandi band di Melbourne da cui provengono i cinque componenti degli Split System. Di fatto stiamo parlando di un super gruppo formato un po’ per caso, un po’ per noia, molto per amicizia e stima reciproca. La spinta iniziale è stata del cantante JacksonReid Briggs per colmare i vuoti tra una chiusura e l’altra nel periodo della prima ondata della pandemia. Nella primissima jam era seduto lui dietro la batteria, poi hanno imbarcato alle pelli Mitch McGregor e sono subito nati i pezzi dell’EP d’esordio pubblicato su piccolo vinile nel 2022.
A pochi mesi di distanza è uscito l’album Vol. 1. A inizio 2024 hanno dato alle stampe il loro secondo album intitolato, senza troppo sforzo, Vol. 2 pubblicato in patria dalla Legless, in USA dalla mitica Goner e per l’Europa dalla inglese Drunken Sailor. Un monolite di proto punk, garage rock e power pop. Può sembrare un esercizio retorico ma, credetemi, ci ho pensato molto prima di trovare la parola giusta per descrivere questo piccolo-grande gruppo formato da musicisti che animano il più sincero sottobosco r’n’r dell’area metropolitana di Melbourne. Quella parola è compattezza. Con Vol. 2 gli Split System continuano a correre a grandi falcate sulla strada battuta dai Saints e, più di recente, dagli Eddy Current Suppression Ring – influenza rivendicata tanto da volere Mikey Young a masterizzare l’album – e dai purtroppo dimenticati Royal Headache.
La sicurezza, nient’affatto spavalda, che gli australiani mostrano su Vol. 2 non lascia indifferenti. Sì perché per quanto già molto buono, il Vol. 1 era frutto di jam a distanza. In questi 11 pezzi, invece, è quasi possibile sentire il sudore della sala prove. Di certo si sente un affiatamento frutto della pratica sui palchi: l’estate scorsa hanno affrontato un lungo tour europeo che li ha portati anche in Italia. Cuore, polmoni, sangue, carne viva e una fierezza DIY che esplode nella voce arrembante del frontman Jackson Reid Briggs (un Damien Lovelock profondamente working class) e negli intrecci perfetti delle Telecaster di Arron Mawson e Ryan Webb. La sezione ritmica viaggia coesa anche quando il ritmo rallenta, come in The Drain. Se non lo si fosse capito siamo nell’Olimpo Aussie Rock, dove riff robusti e taglienti sanno essere carezzevoli come nel mid-tempo percorso da una favolosa melodia elettrica di Alone Again. E gli affondi punk’n’roll non sono mai deliberati (Anything), hanno profondità post punk (Dave) e la forza di esplodere in ritornelli liberatori come nel caso di End Of The Night. Onestà, passione, urgenza, energia. Di questi tempi dischi del genere sono essenziali per chi ha a cuore le sorti del r’n’r chitarristico e ‘ntu culu le pretese arty.
Ho parlato di compattezza per descrivere con una sola parola il secondo album del gruppo australiano. La seconda parola è autenticità. Ingredienti fondamentali per chiunque suoni r’n’r. Anche questo mi ha spinto a contattare il chitarrista degli Split System Arron Mawson, vero faro della scena r’n’r dell’area di Melbourne con la sua Legless Records e con l’impegno in altre grandi band come Stiff Richards, Doe St. e Polute. Oltre che neo padre, lui che il padre lo ha perso troppo presto.
Sembrate una band molto coesa ora.Cosa è cambiato rispetto al primo album?Non credo sia solo questione di aver suonato tanto insieme, penso ci sia qualcosa di più profondo e ancestrale…
È difficile da dire amico… sicuramente ha influito il fatto di aver avuto più tempo per suonare insieme, ma allo stesso tempo direi che hai ragione. Immagino che più tempo passi a cercare gli stili e le influenze di ognuno, più aumentano le influenze di tutto il gruppo e poi inevitabilmente vengono fuori nella musica che suoni. Onestamente non siamo un gruppo di persone che arrivano a scrivere canzoni con intenzioni predefinite. Di solito le canzoni partono da un’idea di qualcuno che sviluppiamo insieme sulla base della sensazione iniziale. Se l’energia è buona, allora diventa una canzone abbastanza facilmente. Se non funziona, la buttiamo via e continuiamo ad andare avanti. Vol.2 è stato solo un ulteriore passo avanti nella direzione che ci sembrava più giusta.
È solo r’n’r o c’è altro dietro la musica degli Split System? Insomma, perché “sbattersi”, girare il Paese e il mondo suonando r’n’r? Lo si fa per se stessi, per entrare in empatia con persone simili, per astrarsi dalla merda che ci circonda o cosa?
Tutti noi troviamo un grande senso di cameratismo gli uni con gli altri e con la comunità che ci circonda. E, come ti dicevo, riteniamo sia molto importante anche che questa energia sia condivisa, che si facciano le cose per le giuste ragioni. Musica e divertimento sono un modo davvero potente per riunire le persone, essere liberi e sentirsi parte di qualcosa di speciale. Una sensazione incredibile e se riusciamo a facilitarla anche solo un po’ per gli altri, stiamo andando nella direzione giusta. In questo momento il mondo è pieno di stronzate inutili, fare del r’n’r con gli amici è qualcosa ancora reale.
Se devo scegliere solo una canzone dell’album dico End Of The Night. Ma cosa succede alla fine della serata?
La canzone parla di trascorrere una grande serata fuori. Una di quelle serate che vorresti non finisse mai. Alla fine il sole sorge e subentrano sentimenti di rimpianto e ansia.
Per concludere una curiosità: in un’intervista ho letto che tra Saints e Radio Birdman scegliete tutti i Saints senza esitazione…
In realtà siamo tutti grandi fan di entrambi i gruppi. Entrambi i gruppi erano in prima linea nelle sonorità punk degli anni 70, con i Saints che arrivarono proprio all’inizio di quell’ondata insieme a Damned e Ramones. Dall’esterno sembra che tutte e due le band si concentrassero più sul fare buona musica che sull’atteggiamento e sulle pose punk. Questo ci piace. I Saints in particolare sembravano ragazzi normali, distaccati dal movimento più ampio che si stava svillupando in quel momento.
Il pezzo-intervista-recensione che avete appena letto è stato pubblicato parzialmente sui numeri di marzo e giugno 2024 di Rumore.
Dove sta scritto che l’Italia non può avere un grande gruppo power pop contemporaneo? Genere che per suonare credibile richiede freschezza e maturità, oltre che talento. Tutte caratteristiche possedute dai Lings, quattro ragazzi che provengono dall’asse tra Mantova est e la bassa veronese e che nel corso degli ultimi anni hanno accumulato esperienze in gruppi belli duri come Antares, Komet, Dots, High School Lockers, Thunder Bomber.
Chiedo al cantante e chitarrista Paul come è nato il progetto musicale e cosa li ha spinti ad abbracciare sonorità più morbide: “Durante il Lockdown mi sono ritrovato con un sacco di canzoni e bozze messe da parte negli anni e ho scelto di arrangiarle con Bryan, Alberto e Andrea, che oltre ad essere amici di lunga data sono anche ottimi musicisti. Il pop r’n’r ci accompagna da sempre, credo che questo tipo di forma canzone sia il filo conduttore di tutte le formazioni a cui abbiamo preso parte. Anche nel punk più duro sentiamo la necessità di costruire un pezzo catchy. Inoltre io e Bryan facevamo parte dei Tree House Society, band power pop nata dalle ceneri degli Highschool Lockers, e una decina d’anni dopo con i Lings abbiamo ripreso il discorso rock-melodie-coretti”.
Un discorso che porta lontano. Agli anni ‘60 e ‘70 della West Coast, con armonie vocali e arrangiamenti che disegnano nostalgie luminose sulla sabbia. Rimanendo in California, anche al jangle pop folk ipnotico degli Allah-Las. Paul non sembra molto d’accordo: “Sarò sincero, non ho ancora capito perché ci paragonino agli Allah-Las, se c’è una vena psych surf viene dal riverbero fenderoso di Albe che ha Dick Dale in testa e nelle mani, oltre a una fortissima impronta jazz. E ad ogni modo le nostre influenze musicali non vanno oltre il 1999, di questo sono abbastanza certo”.
Come ho scritto nella recensione del loro primo album: “Senza tirarla troppo per le lunghe i Lings non sbagliano una virgola, cesellando ogni singolo passaggio dei 12 ispiratissimi pezzi”. L’esordio omonimo è stato pubblicato da Slack, un collettivo che ha sede ufficiosa a Gradara (PU): “Il collettivo Slack è molto semplicemente un gruppo di amici musicisti fissati per l’underground, mossi da stima reciproca e passione per l’autoproduzione. Gli abbiamo dato un nome che incita alla pigrizia e che ci rappresenta a pieno. Una decina di anni fa abbiamo iniziato a stampare in CD gli album delle nostre band per poi allargare la produzione a proposte esterne che ci vanno a genio, senza troppi limiti di genere. Ci dedichiamo anche all’organizzazione di concerti e di produzione grafiche”.
Per concludere mi faccio raccontare come è andata con la Kool Kat Music, l’etichetta statunitense che ha co-prodotto l’album e che nel proprio catalogo può annoverare nomi importanti del calibro di Nick Lowe, Plimsouls e Psychotic Youth:“Kool Kat Music l’ho scovata l’anno scorso cercando etichette che potessero promuovere l’album oltreoceano. Ray mi ha risposto nel giro di poche ore desideroso di stamparne un CD e di farlo girare tra gli appassionati sparsi per il globo di questa nicchia che è il power pop. La cosa che lì per lì mi ha fatto sorridere è che l’etichetta ha sede a Mantua, nel New Jersey… l’ho considerato un segno del destino!”.
Una versione slim di questo pezzo-intervista è stata pubblicata su RUMORE di aprile 2023, nella sezione “Futura”.
Il 7 maggio uscirà su Soundflat Heck Yeah!!, il nuovo album degli olandesi The Heck, che ho avuto la fortuna di ascoltare in anteprima: ed è una bomba. Così mi è tornata in mente la breve chiacchierata con il cantante-chitarrista Henri Sulmann finita su Rumore di settembre 2020.
Non occorre tornare indietro fino agli Outsiders per parlare di dutch garage rock. Due dei più interessanti gruppi garage contemporanei arrivano proprio dall’Olanda: mi riferisco a E.T. Explore Me e agli Heck di Henri Sulmann, il trentottenne consulente finanziario del nord est dei Paesi Bassi, a uno sputo dalla Bassa Sassonia, che negli ultimi 15 anni ha fatto pratica con No-Goods, Miracle Men e De Keefmen. Dal 2017 Henri guida l’incendiario power trio con la divisa d’ordinanza da cameriere Sixties. Uno stile vintage che va di pari passo con la ferocia sonica ben distribuita nel primo album Who?, pubblicato nel 2019 dalla Dirty Water, e nei due singoli che anticipano il nuovo album in uscita a primavera sulla tedesca Soundflat.
“Il nostro ultimo singolo Shit On The Radio è un atto d’accusa contro l’attuale sistema radiofonico olandese”, mi dice Henri, “dove passano sempre gli stessi artisti paludati 24 ore al giorno. Nemmeno un’ora alla settimana è dedicata a gruppi più piccoli, e non parlo solo di Sixties garage ma anche di hip hop. Fa male l’idea che tutto debba adattarsi al formato radio”. Anche perché quello degli Heck non è un garage vetusto e derivativo tout court. I tre prendono a morsi la modernità e shakerano melodia indie, facendosi guidare dalle buone vibrazioni del passato. Il bassista René Katerbarg suona un vecchio quattro corde Crucianelli, Henri imbraccia una Eko 500 del 1962: “Adoro il suono caratteristico delle chitarre vintage. Questa Eko mi ha rapito immediatamente e poi ha un aspetto fantastico con tutti quei bottoni e la finitura gold glitter. Nei live porto un’altra chitarra italiana, una vecchia Welson color red sparkle”.
Devo averlo già scritto da qualche parte che al punk ci sono arrivato dalla new wave. E l’imprinting m’è rimasto. Poi ho preso al volo la complanare del post-punk ché quando la storia ha iniziato a prendere una piega troppo gaia e tastierosa ho preferito rifugiarmi tra le chitarre grattugiate evitando come la peste qualsiasi afflato new romantic. Il mio spartiacque sono stati i Fall, per la precisione Grotesque (After The Gramme) doppiatomi su cassetta e poco dopo comprato per posta a due lire su Top Ten o Sweet Music, non ricordo bene. Ricordo bene, però, che era estate e che avevo 16 anni e tre-passioni-tre: il r’n’r, la pallavolo e la fica, non esattamente in questo ordine. La terza la vedevo col cannocchiale (invero era piuttosto un’aspirazione), nel volley ero un giocatorino dotato di buoni fondamentali e il r’n’r iniziavo a frequentarlo assiduamente. Una bella spinta per approfondire la frequentazione me l’ha data proprio la band di Mark E. Smith. Oltre alla musica mi affascinava il concetto di “caduta” (The Fall, appunto) che per me non significava un rialzarsi ma proprio un alzarsi, per la prima volta. Mettere la testa fuori, respirare a pieni polmoni, simile tra i diversi.
Questa cosa della caduta è tornata, vent’anni dopo, nel pieno delle trattative per portarmi a casa il tanto desiderato juke-box. Magari non sarà sfuggito quanto scritto nella puntata precedente: “Nel momento dell’acquisto è pure accaduta una vicenda comica che stava per sfociare in tragedia…”.
Insomma, ci sono cadute e cadute. Metaforiche, concettuali e reali. Quella che sto per raccontarvi è stata così reale da apparire irreale. La storia è questa: tramite una mia zia che ha gestito a lungo un bar ero riuscito a entrare in contatto con il signor Franco, un vecchio noleggiatore di flipper e juke-box convertitosi, come tutti, a quelle infernali macchinette chiamate videopoker. Stavo dietro da un po’ a ‘sto signor Franco, per telefono mi aveva già parlato di cifre ed eravamo d’accordo pure sul prezzo di massima ma, botta a botta, rimandava l’incontro. Finalmente arrivò il fatidico giorno e decisi di portarmi dietro mio padre che era incuriosito dalla faccenda. L’azienda del signor Franco, a parte l’ufficio e un altro paio di stanze, sembrava ancora in costruzione ma, ahimè, ci feci caso solo dopo. Era inverno, pioveva a dirotto e faceva buio presto. Mio padre indossava un cappotto in Loden nuovo di pacca e teneva l’ombrello a mo’ di bastone. Il signor Franco ci disse di scendere al piano di sotto indicandoci le scale col braccio a mo’ di vigile urbano.
All’improvviso il patatrac. Non c’erano più né il Loden, né l’ombrello, né mio padre. Sentii un tonfo lontano, preceduto da urla agghiaccianti che mi parvero lunghissime. Per non fare la stessa fine, scesi le scale buie con preoccupata circospezione e trovai mio padre steso a terra un paio di metri sotto. Era immobile, supino, leggermente spostato su un fianco. Praticamente morto.
Rimase steso con gli occhi spiritati, non parlava e non si mosse per secondi che a me parvero ore. In realtà il caro genitore era solo sotto shock. Aveva fatto una scrippella epocale di quelle che non ti dimentichi facilmente, ma era caduto bene. Nel pieno del volo, mi disse dopo, aveva avuto la prontezza di fare una torsione in modo da non andarci di muso e atterrare su un fianco. Per fortuna la sua corporatura tendente più a Bud Spencer che a Piero Fassino aveva attutito l’impatto. Quando finalmentesi rialzò, aveva i pantaloni e il Loden sgarrati in più punti e impolverati tipo muratore bergamasco. Uscimmo da lì all’istante, dimenticandoci ciò che eravamo andati a fare, con il signor Franco incapace di parlare e suppongo terrorizzato da possibili conseguenze legali. La settimana dopo provai a richiamarlo ma niente da fare, probabilmente era rimasto muto dall’accaduto. Iniziai a spazientirmi dopo il terzo o quarto tentativo andato a vuoto e ancor di più quando si degnò a rispondere dicendomi che non se ne sarebbe fatto più nulla. Accampò scuse talmente patetiche che dovetti inspirare ed espirare per non mandarlo a cacare.
Ma, come si dice quaggiù, “a forza di daje e daje pure la cipoll divend aje” (trad. “Chi la dura la vince”) e dopo un semestre di fine stillicidio sono riuscito a tornare dal signor Franco, questa volta in perfetta solitudine. Quando scendemmo al piano di sotto notai che rispetto alla volta precedente sembrava esser passato di lì Renzo Piano. Era tutto in perfetto ordine, pulito, illuminato, sicuro. Ma non vedevo alcun cazzo di juke-box. Finché in un angolo ne scorsi una decina, accatastati uno sull’altro, pieni di polvere e ragnatele. Il signor Franco, quasi sprezzante e come se non gli interessasse nulla, mi disse una cosa tipo: «Vedi un po’ che trovi lì in mezzo». Ricordo come fosse ora che raggiunsi il tesoro a passo lesto e puntai subito un bel Rock-Ola Coronado del 1966, all’apparenza neanche così malmesso. Ma mi accorsi subito che ‘sto Franco era un figlio di ‘ndrocchia e la sapeva lunga. Mi gelò dicendo che quello lì era rotto, senza parti all’interno e spinse per rifilarmi a tutti i costi un Cadette della Rowe AMI: uno dei pochi juke-box che non sopporto. Anche perché, nel caso specifico, non si trattava dell’edizione deluxe del 1968 con un design optical-psichedelico ma del Cadette “Violetta” del ’71 con l’orrida grata frontale in legno simil massello, tipo baita di montagna, peraltro mezza sfondata. Alla fine, un po’ per esclusione, trovammo un punto d’incontro sul Rock-Ola 463 del 1976 di cui vi ho già parlato. Gli allungai il cash nel suo ufficio, avendo la conferma che ‘sto Franco era davvero un bel figlio di ‘ndrocchia. Sulla parete lunga faceva bella mostra un fantastico Rowe AMI JCL-200, il cosiddetto “Stellone”, prodotto su licenza dalla Microtecnica di Torino nei primi anni ‘60, perfettamente restaurato e con le cromature così lucide che ti ci potevi specchiare.
IL 7” DA JUKE-BOX
Avendo suonicchiato la batteria in gioventù i miei amici dell’Università per la laurea mi regalarono uno spettacolare rullante Tama in bronzo e cerchi bruniti, il PB 355H. E siccome avanzarono loro dei soldi questi straordinari compagni di bagordi, per lo più gente del profondo sud con mani callose e cuori grossi come cocomeri, pensarono bene di aggiungerci uno scatolone di 45 giri comprato a peso. Non era gente appassionata di musica, tutt’altro: uno di loro, mio coinquilino per un periodo, lo chiamavamo Palobo ché ci aveva delle orecchie spropositate e stava in fissa per Mover el Tiempo, l’insulso album di romantic rock del divo messicano delle telenovelas Eduardo Palomo.
Questo per dire che dentro ‘sto scatolone ci trovai di tutto e di più, qualche discreto 45 giri beat ma per il resto robaccia. Però c’erano diversi 7” da juke-box che, a dispetto di quanto si possa pensare, non sono un’invenzione americana ma italiana. Alle spalle c’è una storia curiosa e se vogliamo emblematica del genio tricolore. Il disco per juke-box fu ideato nei primi anni ’60 da due commilitoni che videro nell’elevato costo dei dischi “normali” un ostacolo alla diffusione di queste nuove macchine provenienti dagli USA. La vicenda è spiegata per bene da Claudio Tosato – riparatore, collezionista, nonché uno dei massimi esperti di juke-box al mondo – nell’ebook Jukebox – Una storia fatta di musica a cura di Armando Cardazzo e Désirée Gottardi: “Uno era di Torino e lavorava in un negozio di elettrodomestici nel reparto dischi, mentre l’altro, di Roma era il figlio di un manager della RCA. Era il periodo in cui i noleggiatori di dischi, muovevano i primi passi e cominciavano a guadagnare qualcosa mettendo in funzione nei bar i primi juke-box che arrivavano in Italia usati e quasi sempre con i cargo per le basi Nato […] Al termine del servizio di leva, il torinese fu chiamato a Roma dal padre dell’amico che aveva riconosciuto nell’idea dei due ragazzi un ottimo veicolo promozionale per i dischi in uscita”.
E fu proprio la RCA italiana a distribuire nel Belpaese i primi dischi in edizione per juke-box che all’inizio erano dischi identici alla versione commerciale con tanto di copertina, a parte un timbro sulla label con la dicitura “Disco Edizione Juke Box – Non vendibile al dettaglio”. Anche la curiosa storia della RCA italiana vale la pena di essere brevemente raccontata. Nel secondo dopoguerra la Radio Corporation of America (RCA) decise di impiantare una filiale in Italia, e non perché credesse di trovare da noi un mercato chissà quanto soddisfacente. Lo fece su pressione di Papa Pio XII che, memore dei bombardamenti americani del 19 luglio 1943 sul quartiere romano di San Lorenzo, chiese all’allora vice presidente della RCA Victor, Frank M. Folsom, di installare una fabbrica proprio in quel quartiere in modo da “risarcire” i romani creando nuovi posti di lavoro. E così, nel 1951, nacque ufficialmente la RCA Italiana, una società per azioni controllata per il 90% dalla casa madre statunitense e per il 10% dal Vaticano tramite lo IOR: l’avreste mai detto?
Ma torniamo sul pezzo. Nei primi anni i 7” da juke-box furono stampati tal quali a quelli ufficiali. Solo in un secondo momento, per abbattere i costi, vennero distribuiti dentro cover forate generiche con il marchio RCA. La parola ancora a Tosato: “Seppur privo di copertina, il disco per juke-box incoraggiava comunque operazioni illecite. Infatti, venditori disonesti, dopo aver eliminato con della trielina il timbro che identificava il disco per juke-box, lo rendevano a tutti gli effetti ufficiale e poteva essere venduto al normale prezzo con un incremento del 100% sul guadagno. La RCA scoperto l’inghippo, pensò allora di utilizzare per questo tipo di emissioni, una label specifica diversa da quella normale, in modo da non poter più essere contraffatta e facilmente identificabile dall’acquirente. […] Anche le buste forate con il logo RCA (se ne contano circa cinque tipi) sparirono presto e i dischi per juke-box venivano confezionati usando, dapprima i surplus delle copertine di dischi invenduti che venivano opportunamente forate al centro per mostrare l’etichetta, poi vennero usate buste bianche vergini, fino agli ultimi anni quando venne utilizzata la carta riciclata. […] visto che la cosa funzionava, anche le altre case discografiche italiane aderirono alla famosa ‘edizione per juke-box‘. Nei primi anni quasi tutte le produzioni rispecchiavano il lato A e il lato B dell’edizione normale poi, per dimezzare il costo SIAE, si è pensato di mettere nel lato B un artista (meno famoso o emergente) della stessa casa discografica o di un’etichetta affiliata in distribuzione. A volte capitava che ne uscisse il “disco bomba” con entrambi i lati super gettonati. Capitava anche che un brano venisse prodotto soltanto nell’edizione juke-box, tale disco è diventato negli anni un pezzo molto ricercato dai collezionisti. All’inizio le versioni commerciali dei dischi erano dotate (sul retro copertina) del famoso cartellino o title-strip colorato, che doveva essere ritagliato e inserito nel juke-box“.
Negli anni ne ho visti, comprati e venduti diversi di 7” per juke-box. Alcune accoppiate di artisti sono improbabili e oserei dire bellissime. Andando in ordine cronologico penso al dischetto del 1967 griffato Polydor con Io, tu e le rose di Orietta Berti su un lato e Happy Jack dei The Who sull’altro. L’Oriettona nazionale la ritroviamo nello spettacolare 7” del 1972 con il medley Come porti i capelli bella bionda/La Marianna a guerreggiare contro Tomorrow’s Dream dei Black Sabbath. Un trittico di dischetti “bomba” dei Seventies è composto da Metal Guru dei T-Rex con Day After Day dei Badfinger (1972), On A Night Like This di Bob Dylan contrapposta a On The Line di Graham Nash (1974), Hurricane (Part I) sempre di Dylan e Born To Run di Bruce Springsteen (1976), quest’ultimo anche dal discreto valore collezionistico. Della fine degli anni ’70 menzionerei anche il 7” che contiene The Robots dei Kraftwerk e Una lacrima sul viso di Bobby Solo.
Il decennio dell’edonismo reaganiano e dell’eroina dilagante inizia con tre dischetti da sturbo. Sono del 1980 i 7” split per juke-box che accoppiano Baby I Love You dei Ramones e Contessadei Decibel, Start dei Jam e Cathode Mamma dei Krisma, Private Idaho dei B-52’s e la hit nazionalpopolare sanremese Ancora di Eduardo De Crescenzo. Dell’81 invece è lo spettacolare 45 giri che abbina This Is Radio Clash dei Clash e Il dritto di Chicago di Beppe Starnazza e I Vortici, ovvero il nostro amato Freak Antoni nei panni di un Fred Buscaglione sballato che si presentava come il figlio del cantante umoristico degli anni ‘40 Pippo Starnazza. A chiudere il decennio, nel 1989, viene pubblicato su piccolo vinile per juke-box uno dei più bei pezzi dei Cure, Picture of You, in tandem con From Out of Nowhere dei Faith No More. Nel corso degli anni ’90, nonostante gli apparecchi di riproduzione musicale automatica siano oramai fuori moda, pressoché scomparsi dai bar, i dischetti per juke-box continuano ad essere prodotti. Del 1994 e il 7” split con quella immonda tamarrata di I Need Your Love dei Boston e la fantastica Loser di Beck. Il clou, tuttavia, lo si raggiunge con un altro dischetto datato sempre ’94 che vede abbinate, del tutto a cazzo, Basket Case dei Green Day con Dammi di più di tale Tony Blescia.
CASSETTE E CASSONETTI DELLA SPAZZATURA
Ci sono nato con le cassette ma ai tempi non le amavo molto. Erano scomode da ascoltare e le associavo alla mancanza di soldi. Nel senso che non potendomi permettere i dischi in vinile che avrei voluto, come molti di voi che state leggendo, mi facevo fare le cassettine. Per lo più delle economiche TDK D da 90 minuti per registrarci su due album, uno per lato. L’ho fatto regolarmente fino alla seconda metà degli anni ’90. Nel periodo universitario bolognese andavo in quel meraviglioso posto che era Sesto Senso, mi affittavo a due soldi dei CD di cui avevo letto le recensioni su “Rockerilla” o “Rumore” e poi li riversavo su cassetta. Negli ultimi anni ho ripreso confidenza con le cassette perché diverse belle etichette di musica sfagiolata hanno ri-iniziato a produrle, immagino spinte soprattutto dalla volontà (e direi dalla necessità) di tenere bassi i costi di produzione e quindi di vendita: la nota Burger e la sua sussidiaria Wiener o, per rimanere in Italia, My Own Private e No=Fi, e ancora Bubca e Welcome In The Shit che da queste parti dovreste conoscere. Nonostante ancora oggi non impazzisca per il supporto, il nastro magnetico è comunque un cazzo di supporto, non merdosi mp3 o impalpabile streaming. Aggiungo che lo scorso anno, con alcuni balordi della mia città, abbiamo anche organizzato il Cassette Store Day qui a Teramo, quindi direi che ci ho definitivamente fatto pace.
Il breve panegirico di cui sopra per dirvi che esiste anche il juke-box a cassette. So che si stenta a credere ma tant’è. Tra la fine del 1971 e gli inizi del 1972 la divisione tedesca della Wurlitzer ha tirato fuori il C-110. Magari dopo un ascolto massivo di Kosmische Musik unito all’assunzione sconsiderata di allucinogeni, chissà. Un juke-box di piccole dimensioni, affettuosamente chiamato “baby”, a cui seguì il C-111 che era una versione più classica in legno “woodrail”, tipo credenza della nonna, per fare pendant con l’arredamento delle birrerie crucche degli anni ’70. ‘Sti affarucci potevano contenere un massimo di 10 cassette, le cui custodie venivano posizionate dietro il vetro superiore in bella vista. C’erano un carosello girevole e, non esistendo al tempo la testina autoreverse, meccanismi doppi della Philips: uno per la riproduzione di ogni lato della cassetta. Si poteva scegliere di ascoltare una singola facciata o entrambe, a costi ovviamente diversi. Se si sceglieva un solo lato il primo dei due meccanismi a fine canzone riavvolgeva il nastro prima di riporlo nel vano contenitore del carosello. Se si selezionavano entrambi i lati, il meccanismo alla fine del primo lato veniva inserito nel secondo meccanismo che provvedeva a suonare il secondo lato.
È pleonastico specificare che si trattò di un flop commerciale di dimensioni epiche, come ha fatto notare il solito Claudio Tosato: “L’ideale, sia per il trascinamento della cassetta che per la riproduzione del nastro, erano le cassette originali della durata massimo di 20 minuti per lato, oppure la classica C60 registrata. La versione da 90 minuti era sconsigliata poiché troppo lunga. In Italia questo modello di juke-box non ha mai avuto molto riscontro nei bar ed è stato destinato invece all’uso casalingo o per il classico negozio di dischi dell’epoca. In seguito fu importato negli USA presso la sede storica in North Tonawanda, New York, riscontrando poco successo anche presso il popolo americano.”
Parlando di cassette e di etichette discografiche votate a questo vetusto quanto affascinante formato, è un piacere tirar dentro la Dumpster Tapes che, a mio parere, ha pubblicato uno dei più bei dischi del 2015. Sto parlando dell’album omonimo dei Flesh Panthers, unica uscita curiosamente stampata a 33. Sono in contatto da un po’ con Ed, uno dei due tipi dietro all’etichetta di Chicago, a cui ho posto alcune veloci domande che vanno a toccare anche il juke-box.
Quando è nata l’etichetta?
La Dumpster Tapes siamo io (Ed McMenamin, ndr) e Alex Fryer. Abbiamo iniziato a pensare all’idea di mettere su un’etichetta un paio d’anni fa e, detto fatto, la nostra prima uscita è stata realizzata il primo novembre del 2013. Andando ad un sacco di concerti qui in zona, abbiamo visto che molte valide band locali non avevano alcuna uscita ufficiale, così ci siamo detti che sarebbe stato divertente e utile farla noi un’etichetta. Devi sapere che a Chicago c’è una grande scena musicale DIY, ogni giorno ci sono band incredibili che puoi veder suonare ovunque: scantinati, cortili, saloni di case private, vetrine di negozi, piccoli bar, locali, ecc.
Perché la cassetta?
Sia io che Alex siamo da sempre grandi amanti della cassetta. È un formato ottimo per le band che possono far uscire la loro musica su un formato fisico, tangibile, in modo rapido e soprattutto economico. Inoltre le cassette sono comode: ad un concerto puoi comprare una cassetta della band che sta suonando e infilarla facilmente in tasca. Ritengo anche che ogni nastro abbia una qualità umana, intangibile, collegata all’artwork e alla natura limitata di ogni uscita. Ad oggi come Dumpster Tapes abbiamo pubblicato 13 cassette e, come sai bene, un solo album in vinile, l’esordio dei Flesh Panthers, co-prodotto con Tall Pat Records.
Quali “tape label” vi hanno influenzato?
Ovviamente la Burger Records rimane una grande influenza per noi. Devo dire che le nostre etichette preferite stanno qui a Chicago, parlo di Randy Records e Tall Pat che stanno facendo uscite davvero killer. Ci piacciono anche Goner, Slovenly, Bachelor, Hardly Art, Rubber Vomit Records e molte altre.
Adesso parliamo di juke-box…
Mi piacciono molto. Alcuni bar di Chicago si sono convertiti ai juke-box moderni “digital touch tunes” che non mi fanno impazzire. Preferisco andare nei posti che hanno dei vecchi juke-box che i proprietari o i baristi illuminati hanno rifornito di dischi davvero eccellenti. Ci sono ancora un sacco di juke-box in città: ad esempio al California Clipper c’è un juke-box gratuito e praticamente non c’è una canzone brutta al suo interno. Devo anche dirti che mio zio Bob ha un fantastico juke-box in casa, un Seeburg del 1955! Lui e la sua famiglia sono stati per me una grande influenza musicale quando ero ragazzino. Ricordo che avevano uno dei primi masterizzatori CD e mi duplicavano un sacco di dischi alternativi che a quell’età non avrei potuto ascoltare in radio o altrove.
Sapevi che la Wurlitzer ha prodotto un piccolo juke-box a cassette negli anni ‘70?
Non lo sapevo! Direi che è fantastico. Grazie di avermelo fatto conoscere… non avevo mai visto un juke-box a cassette prima, ma qui in città un bar chiamato The Owl ha costruito un affare, una specie di macchinetta automatica come quelle che distribuiscono snack, con dentro cassette di band locali. Il bello è che viene continuamente rifornito.
JUKEBOX EXPLOSION
Chiudiamo con un bel disco a tema, ché siamo pur sempre una zine musicale. Nel 2007, come i più attenti di voi sapranno, la In The Red ha dato alle stampe su CD e vinile Jukebox Explosion con una copertina che ricalca, facendone la parodia, quella del primo volume di Back From The Grave, in entrambi i casi opera di Mort Todd: fumettista, scrittore, regista e chi più ne ha più ne metta che, tra le tante cose, è stato direttore di “Cracked Magazine”. Dei 18 pezzi contenuti nella raccolta, 10 sono presi di peso dai primi cinque 7” della Explosion Juke Box Series, sfavillanti 45 giri con buco grande e copertina generica tutti corredati dall’etichetta (o title-strip) per juke-box. Una succosa raccolta che ci mostra le tante facce della Jon Spencer Blues Explosion, quella più cruda, primitiva e noise ma anche quella groove, punk e bluesy.
Bello ignorante, dritto per dritto e alla portata di tutti, è il boogie hard’n’roll Ghetto Mom, lato A della quinta uscita datata 2002 della Juke Box Series. Il pezzo proviene dalle session di Plastic Fang ed è stato prodotto da Steve Jordan che ci suona pure il basso. Pare che il multistrumentista sodale di Keith Richards negli X-pensive Winos tra un “Goddamn” e l’altro abbia categoricamente vietato l’uso di alcol in studio. Ma devo confessarvi che il mio brano preferito non è tra quelli pubblicati nella Juke Box Series. Io sbarello letteralmente per il noise souleggiato Push Some Air, un incrocio tra James Brown e i Cows, lato A di un rarissimo singolo dato alle stampe nel 1995 dalla misconosciuta etichetta brasiliana Barulho Del Mal in occasione del primo tour del gruppo nella terra del carnevale e dei culi più belli del mondo. Il dischetto era disponibile solo nel banchetto del merchandising e andò sold out già alla seconda data del tour a Fortaleza. Ho sentito dire che gran parte delle copie uscì fallata, con il vinile deformato e quindi non riproducibile. Bella inculata, per rimanere in tema.
Per onestà devo dire anche che ho seguito e rispettato Jon Spencer ma, detto tra noi, lui non mi ha mai preso più di tanto. A pelle. E forse ci avevo ragione ad essere sospettoso ché poi nel 2007, casualmente lo stesso anno dell’uscita della raccolta di cui sto cianciando, ce lo siamo ritrovato a collaborare con Eros Ramazzotti nel pezzo Taxi Story. Si dice l’abbia fatto per il bieco denaro e per la fregna, ops… la pussy galore, che pare sia uno degli hobby in comune con l’ex ragazzo di borgata. Della Blues Explosion sono sempre stato più attratto da Judah Bauer e Russell Simins, assieme per un periodo negli Honeymoon Killers e, poco prima di unirsi al marito di Cristina Martinez (perché questo qui è il vero capolavoro di Jon, non Crypt-Style! o Extra Width), nei misconosciuti Crowbar Massage che hanno lasciato ai posteri solo due 7”. Tra questa coppia di comprimari di lusso ho un vero e proprio debole per il corpulento Russell. Una ventina d’anni fa sono rimasto sotto all’affascinante progetto Butter 08, messo in piedi con Yuka Honda e Miho Hatori dei Cibo Matto, sfociato nell’album prodotto nel ’96 dalla Grand Royal di Mike D dei Beastie Boys. E ancora prima ero andato completamente fuori di testa per l’omonimo album del 1993 dei Crunt, il supergruppo che vedeva il nostro nelle retrovie con Kat Bjelland delle Babes In Toyland e Stuart Gray dei Lubricated Goat, all’epoca marito e moglie, a fare da punte di sfondamento. Qualche mese fa dal mio pusher di vinile ho trovato il loro unico 7” Swine/Sexy, pubblicato nel 1993 dalla misconosciuta label australiana Insipid Vinyl. Non credevo ai miei occhi mentre accarezzavo coi polpastrelli la superficie liscia e immacolata del piccolo vinile. Ed è stata tanta la gioia che nemmeno ho dato peso a quel maledetto buco piccolo inadatto al juke-box.
La seconda parte delle Cronache del (mio) juke-box è stata pubblicata sul n. 3 della Rock Zine SOTTO TERRA di ottobre 2015.
Si abusa spesso di termini quali seminali e pionieristici ma in questo caso ci stanno tutti, nonostante Sonny Vincent e i suoi Testors siano inspiegabilmente assenti dalla storiografia punk newyorkese tanto da non comparire, neppure per sbaglio, nella bibbia Please Kill Me di Gillian McCain e Legs McNeil.
La prima volta che ho visto Sonny Vincent dal vivo è stato nel 2003 in quel gran bel posto che era l’Indhastria di Giulianova, di fronte a quattro gatti. Dove, per la cronaca, fece un concerto della madonna con una band altrettanto della madonna che, tanto per dire, schierava al basso un certo Ivan Julian (Voidoids e molto altro). In quella circostanza Sonny si fece quattro chiacchiere con l’amico Paolo Marini. L’intervista e una mia storia sulla sua straordinaria avventura musicale finirono su MOOD n. 11, un free press che facevamo qui a Teramo.
L’occasione per ricontattare questo eroe minore del punk a stelle e strisce mi è stata servita su un piatto d’argento dalla ristampa della raccolta Complete Recordings 1976-1979 a firma Testors Featuring Sonny Vincent. Parte di quello che state per leggere è finita nella rubrica Flashback di Rumore di febbraio 2015, il resto è roba inedita rimasta fuori per questioni di spazio.
La raccolta, pubblicata nel 2003 dalla Swami con tutto il materiale del segreto meglio nascosto del punk newyorkese del ’77, è stata ripubblicata a fine 2014 dalla tedesca Alien Snatch! su doppio LP arancione (37 pezzi) e doppio cd (41 pezzi), entrambi con copertina apribile o gatefold per chi non parla come mangia. Un manufatto discografico monumentale con 11 inediti registrati in studio nel biennio ’76-’77 che mostrano una band già matura nel tirare pugni punk e flirtare con il r’n’r di strada, non facendosi mancare ballate decadenti da pelle d’oca. I brani live fanno assaporare l’aria di quegli anni al Max’s e al CBGB’s. Il secondo disco contiene gli inediti del ’79 compresi Together e Time is Mine, i 2 pezzi che finirono sull’unico 7” del 1980.
Roba incendiaria, ieri come oggi.
La storia di Sonny Vincent ha radici antiche. Già nei primi anni ‘70, spiantato e senza fissa dimora, inizia a fare pratica con Distance, Liquid Diamonds e FURY, band ancor più sconosciute dei Testors che nella seconda metà del decennio hanno calcato i palchi prestigiosi della grande mela, come mi dice lui stesso, gentile e particolarmente loquace.
“C’è stato un momento nel quale si doveva scegliere se essere una band del CBGB’s o del Max’s. Noi suonavamo in entrambi i posti, nessuna esclusività. La verità è che suonavamo ovunque riuscissimo a ottenere un ingaggio”.
L’essere così randagi e ostinati non li ha di certo aiutati. Nondimeno resta un mistero che i Testors in vita abbiano inciso un solo singolo. E pensare che Joey Ramone pare girasse con un loro nastro che tirava fuori quando gli chiedevano consigli su come suonare punk:
“Non voglio dire cose negative perché al momento mi sto divertendo e sono in un buon momento, ma per rispondere alla tua domanda onestamente quando ero nei Testors avevo un odio viscerale per i meccanismi del music business, cosa che mi porto dietro ancora oggi. La gente sarebbe sorpresa se conoscesse veramente i meccanismi che aprono la strada a una band. Tra il ’75 e il ’79 il mio unico obiettivo era quello di creare musica onesta, urgente e con una integrità a prova di proiettile. Non è mio stile sputtanare le persone ma posso dirti che il bassista di uno dei principali gruppi della scena faceva sesso con il presidente di una casa discografica e pure con sua moglie. Prima di essere un bassista era un marchettaro; nonostante la sua band fosse incredibile e rivoluzionaria, firmarono un contratto discografico per questi motivi. Non abbiamo mai inviato nastri o demo alle grandi case discografiche perché rappresentavano tutto ciò che odiavamo. In realtà non abbiamo inviato alcun demo in giro e non abbiamo mai incontrato uomini d’affari che ci potessero aiutare. Il materiale completo dei Testors ristampato ora su Alien Snatch! è stato registrato per lo più nel nostro loft da Carl Cuminale, un amico del Bronx. È stato meglio così perché ero molto esigente sul suono e sull’approccio e non volevo che un produttore rovinasse tutto. I ‘ragazzi’ dei Testors stanno per lo più a New York ma non sono più attivi nella musica. Sono ancora in contatto con loro, abbiamo un buon rapporto”.
La vita di Sonny è stata durissima, segnata dal Vietnam, da riformatori, droga, carceri, ospedali psichiatrici. Tuttavia, al contrario di quanto si possa pensare, ai margini del luccichio sballato che fa tanto immaginario rock:
“La scena di allora era molto vivace, eccitante, popolata di persone meravigliose, ma c’era sempre un lato viscido e io ne stavo fuori. La scena ‘junkie’ la trovavo noiosa, non sono mai stato un fan di William Burroughs e odiavo il dramma che circondava tutte quelle stronzate con Johnny, Jerry e Willie; non era proprio la mia idea di ‘cool’. Nella tradizione della letteratura e del r’n’r è stato creato a tavolino un enorme immaginario di coolness, ma non era davvero cool. Anche se mi piaceva sballarmi e fare cazzate, non era il mio stile di vita quotidiano. Noi Testors eravamo molto intensi ma in un modo diverso, non consideravamo la musica come un party, per noi era una questione di vita o di morte. Ok, eravamo giovani, ma credevamo che le sorti del mondo dipendessero da noi”.
I Testors sono stati rivalutati negli anni ‘90, soprattutto in Europa, con i due 10” dati alle stampe dalla tedesca Incognito e con l’album del 1999 assemblato dalla nostra Rave Up Records nella incredibile serie American Lost Punk Rock Nuggets. Chiedo a Sonny come se lo spiega e se magari sia dovuto anche alla sua frenetica attività in quel periodo. Penso agli Shotgun Rationale nelle cui fila sono passati Bob Stinson dei Replacements, Cheetah Chrome dei Dead Boys, Greg Norton degli Hüsker Dü, Spencer P. Jones dei Beasts Of Bourbon, Chris Romanelli dei Plasmatics, ecc. Alla sua lunga collaborazione con Moe Tucker, o all’album Pure Filth a nome Sonny Vincent & His Rat Race Choir, ovvero il supergruppo con Cheetah Chrome, Captain Sensible dei Damned, Scott Asheton degli Stooges e Scott Morgan della Sonic’s Rendezvous Band.
“Non saprei, sinceramente. Eravamo incasinati in un sacco di storie, non avevamo un album, tantomeno una promozione adeguata, ma devo anche ammettere che parte della responsabilità è stata mia: ero un selvaggio, niente affatto interessato ad avere a che fare con contratti e avvocati. Detto questo, in tutta onestà, ho sempre saputo che un giorno i Testors sarebbero stati rivalutati. Sentivo che prima o poi il nostro lavoro sarebbe stato apprezzato senza il clamore e la pubblicità. Sono molto soddisfatto del fatto che le persone ci hanno scoperto ora e posso dirti che è esattamente come dovrebbe essere! Non potrò mai avere degli incubi tipo ‘Oh se solo non avessimo dato ascolto a quel fottuto produttore o a quel cazzo di manager’. La musica dei Testors è cruda e meravigliosa, e sarà così per sempre”.
Una vita quella di Sonny vissuta in strada dall’età di 13 anni, solo per la musica che lo ha portato a collaborare con un’infinità di leggende del rock. Oltre alle già citate aggiungerei Sterling Morrison, Richard Hell, Jim O’Rourke, Thurston Moore, Ron Asheton e Jimmy Page. Ma su chi sia stato il migliore musicista con cui abbia suonato e quale la miglior band dell’epoca del Max’s del CBGB’s mi dà una risposta che non mi aspetto. O forse sì, a pensarci bene:
“Bobby Stinson. Una persona complessa, un folle pieno di sensibilità che un giorno mi disse sarebbe morto la musica. Gli volevo bene, mi manca davvero tanto… sulla miglior band non ho alcun dubbio: i Suicide di Alan Vega e Marty Rev”.
A 60 anni suonati Sonny Vincent, il cui vero nome è Robert Ventura, macina ancora grandioso r’n’r con la sua fedele Les Paul a tracolla. L‘album Cyanide Consommé pubblicato nel 2014 su Big Neck è una bomba. Non sono da meno gli album-raccolta del 2015 Plutonium Dreams e Psycho Serenades. In quest’ultimo “infila 14 serenate psicotiche, pescate per lo più dal passato, che sbranano tanti giovinastri pim-pum-punk dei giorni nostri. Per tirare una bella linea basterebbe l’apertura magniloquente affidata alla ballata elettrica Black Sea, anthemica al cubo”, come ho scritto nella recensione pubblicata su Rumore #284.
Nel concludere vi vorrei invitare a una buona azione. Un azione più punk di quanto si possa pensare. Un anno fa, esattamente il 2 gennaio 2016, un esplosione di gas ha provocato un tremendo incendio che ha sconvolto per sempre le vite del figlio di Sonny Vincent, Robert, di sua moglie Sarah e del piccolo Cayden di appena 9 anni. I tre sono rimasti pesantemente ustionati e hanno perso tutto quello che avevano. La buona azione è contribuire alla raccolta fondi per le loro cure mediche attraverso questo indirizzo: https://www.gofundme.com/xnvynbcc oppure versare ciò che potete tramite PayPal all’indirizzo e-mail: sonnyvincentpersonalmail@gmail.com. Che il rock and roll vi abbia in gloria.